Il bastone di Asclepio
a cura di Sergio De Benedictis [sergio.debene(at)gmail(dot)com]
In questo periodo di contagio

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(Ndr. Su espressa richiesta, passando con il mouse sulle immagini, se ne ottiene l'ingrandimento)

In questo periodo di contagio abbiamo, si spera, imparato e capito tante cose e sicuramente quella che un virus non può infettare solo il nostro computer ma anche il nostro corpo e sconvolgere la nostra vita.

Ma anche se le conseguenze della sua esistenza erano sotto gli occhi di tutti, non si riusciva a vederlo dal vivo ed è rimasto fino al ‘900 inoltrato un mistero per la Scienza.

Anche se agli inizi del ‘700 l’olandese Anthonie van Leewenhoek (1632-1723) perfezionò lo strumento del microscopio e poi Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910) portarono avanti due secoli dopo precise ricerche batteriologiche, nessuno mise mai gli occhi su un virus, né capì bene cosa fosse in realtà.

 

E anche se nel 1902 William C. Gorgas (1854-1920), igienista e generale dell’esercito statunitense, nel corso della guerra ispano-americana, allorché le perdite americane per la febbre gialla risultavano di gran lunga superiori a quelle dovute al fuoco spagnolo, si prodigò per rendere pulita l’isola cubana, non riuscì di contro a scoprire quale fosse l’agente patogeno colpevole del disastro.

Gli scienziati si muovevano come cacciatori bendati in uno stagno che si orientano per sparare solo con il verso delle anatre.

E anche la “spagnola”, pandemia influenzale scoppiata nel 1918, sbandierata come spauracchio anche in questi giorni, pur facendo cinquanta milioni di morti, rimase un terribile mistero come la sua causa invisibile e non identificabile all’epoca.

Insomma il virus si nascondeva “all’occhio del microscopio”, non si riusciva a coltivarlo in laboratorio, al contrario di un batterio non si poteva catturare e quindi la sua esistenza era puramente deduttiva.

Perché una natura così sfuggente? Perchè oggettivamente sono veramente minuscoli, tra i 28 e 200 nanometri, che è un miliardesimo di metro.
Strutture semplici ma ingegnose, diabolicamente subdole, quasi una anomalia biologica tanto che è ancora controversa una loro classificazione come esseri viventi. Da buon parassita combatte e fugge, cercando di sopravvivere al fine di perpetuare la sua discendenza.

Nel corso di milioni di anni si sono adattati seguendo anche loro la selezione naturale di darwiniana memoria e solo i più “bravi” sono sopravvissuti; infatti sono qui presenti sula terra molto prima di noi “sapiens” e la loro storia è assai più lunga degli studi che noi abbiamo fatto su di loro.

Il suo nome discende dal latino virus che ha il significato di “melma, fetore, veleno” ma anche di “umore animale velenoso”. L’accostamento al genere animale non è causale perché la sua trasmissione avviene spesso per “zoonosi”, di solito con un salto intermedio con una specie “ospite” che fa da serbatoio; questo sembra anche confermato nel caso dell’odierno COVID-19.

Il termine virus fece la sua comparsa in letteratura già nel lontano 1728 ma per lungo tempo gli scienziati lo usarono come termine generico per indicare un qualunque microrganismo infettivo, pur sapendo che a volte avevano a che fare con un batterio.
Pur diventando nei secoli familiari malattie come il vaiolo, la rabbia, il morbillo, nessuno sapeva da cosa fossero provocate e se ne attribuiva la causa ai miasmi pestilenziali, materia in decomposizione, sporcizia, povertà o anche volontà divina, concausa purtroppo tirata fuori improvvidamente anche per questa pandemia da alcuni esponenti ecclesiastici.

Solo con gli studi di Koch, Pasteur e Joseph Lister (1827-1912) furono gettate le basi per una rivoluzione concettuale in medicina e l’accettazione di una teoria microbica; ma erano pur sempre batteri visibili al microscopio e coltivabili in laboratorio.

Successive ricerche condotte da Dmitrij Ivanovskij (1864-1920) sul mosaico del tabacco, una malattia che infestava le piantagioni dello zar di Russia, dimostrarono che la linfa di piante infette, pur passata attraverso un filtro Chamberland, fatto di porcellana finissima, riusciva comunque ad “inquinare” le piante sane, mentre perdeva ogni potenza se lasciata decantare.

Il primo virus animale scoperto fu quello dell’afta epizootica che colpisce ruminanti e suini; contratta la malattia l’intero allevamento deve essere abbattuto. Anche lui “filtrabile” si riproduceva solo nelle cellule viventi e si ipotizzò quindi che poteva esistere una intera classe di patogeni di quel tipo, non ancora scoperti, colpevoli di malattie come il vaiolo.

Fu lo statunitense Hans Zinsser (1878-1940) che dette il nome non molto ortodosso di “virus filtrabili”, spingendosi ad ipotizzare il loro intervento nelle più svariate malattie dell’epoca, sino a quel momento inspiegabili, come vaiolo, varicella, morbillo, parotite, paralisi infantile, encefalite, febbre gialla, dengue, rabbia. Ma il suo intuito fu quello di parlare per la prima volta del cosiddetto “salto di specie” da animale a uomo: la famigerata zoonosi!

Vita dura quella di un virus che non è autonomo nella replicazione ma deve “mendicare e rubare” cambiando frequentemente casa passando da un ospite ad un altro. Come un “ladro” deve forzare la serratura per entrare nelle cellule che lo ospitano e capire velocemente come prendere il controllo, per poi replicarsi ed uscire velocemente prima dalla cellula e poi dall’ospite, tutto con il minimo sforzo.

Con classico humor inglese, il nobel Peter Medawar (1915-1987) definì un virus come “cattive notizie avvolte da una proteina”, definizione quanto mai vera in questi giorni!

Sergio De Benedictis
14-04-2020