Il bastone di Asclepio
a cura di Sergio De Benedictis [sergio.debene(at)gmail(dot)com]
La Medicina "primitiva"

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Innanzi tutto, dobbiamo intenderci sul significato che, almeno nei suoi primi atti di vita, è da attribuire alla parola « medicina ».

Con questo termine va intesa qualsiasi esplicazione dell’umana attività rivolta a lenire o, se possibile, guarire la sofferenza fisica dell’uomo, usando i mezzi che lo stato attuale, in quel momento, mette, o crede di mettere a disposizione: dalla preghiera all’esorcismo; dall’atto manuale di un intervento, alla somministrazione di una qualsiasi sostanza cui si attribuisca una virtù guaritrice; dal procedimento che denunci un principio magico, ad una controfattura stregonesca.

Alcuni associano anche l’aggettivo di “istintiva”; ma riteniamo che questo termine equipari l’atto dell’uomo a quello dell’animale che lecca la ferita per lenire il dolore, che retrae l’arto fratturato per non esacerbare la sofferenza, che opera atti di disinfestazione per liberarsi dai parassiti del corpo, che si bagna nell’acqua fredda per lenire l’ardore della febbre.

Ma non è da ritenersi accettabile per l’uomo questa medicina perché non può esistere documentazione a riguardo e l’atto in sé non trova corresponsione con un movimento intellettivo.

Poste queste premesse riteniamo quindi “primitiva” quella sua fase che la trova in uno stato interpretativo precedente a quello scientifico, qualunque sia il tempo e il luogo. Il che può avverarsi oggi, come ieri, come, naturalmente nella preistoria.
Primitiva è, dunque, anche la medicina dei popoli odierni, i quali non conoscono quella scientifica, così come una certa medicina “popolare”, la quale risulta essere una specie di archivio vivente di tradizioni.

E risalendo alle prime origini dell’uomo, il concetto demoniaco fu il primo a presentarsi alla spiegazione di quel fenomeno misterioso e tremendo che è la malattia.

Immaginatevi un nostro progenitore che vedeva uomini imbattibili da nemici e da fiere, vittoriosi contro tutte le forze umane e naturali, soccombere miseramente sotto i colpi implacabili di una forza sconosciuta, invisibile. Essi morivano così, senza una ferita evidente, senza versare una goccia di sangue, consunti da un fuoco interno che sembrava ardere il loro organismo, o immersi in un sopore letargico, o urlanti sotto gli strazi di acuti artigli invisibili.

Nei suoi occhi, che malgrado lo stato semi-bestiale sono pur sempre gli occhi di un uomo, si rispecchia lo strazio del suo essere dilaniato dalla malattia. Si contorce sotto lo spasimo del male; poi un tremore lo invade; alcuni sussulti scuotono il suo corpo, porta le mani alla gola come per liberarsi da una inesorabile stretta che gli mozza il respiro, e rimane inerte, con lo sguardo sbarrato, fissando un mostruoso nemico che nessun altro può vedere: la morte.

I nostri antenati potevano comprendere solo una morte dovuta a ferite o percosse. Quando moriva un uomo per la ferita di un colpo di clava o per gli artigli di una fiera, essi vedevano uscire dal corpo della vittima un liquido denso, caldo, fumante: quello per loro rappresentava la linfa vitale che ora, andandosene, lasciava il compagno inerte.


Ma l’uomo che muore senza nessuna ferita, senza nessuna percossa, senza che nessun nemico lo abbia ucciso, perché muore? Quale è la causa che lo strazia dentro e che gli toglie la vita? Questa fu certamente la prima domanda di medicina che si rivolse l’uomo primitivo dinanzi al mistero della morte, e la risposta non tardò, ingenua nella sua semplicità ma potente per la evidenza del paragone: nella morte naturale un nemico invisibile si getta sul malcapitato e lo uccide.

Questi nemici invisibili, che stanno continuamente in agguato, che soffocano e penetrano dentro i corpi, stringono e contorcono i loro visceri: sono i demoni, deità maligne, espressione del male. Essi agiscono malignamente, per nessun’altra ragione che quella di nuocere, allo stesso modo con cui le divinità buone agiscono benignamente.

Abbiamo risconti già nelle prime documentazioni delle più antiche civiltà: si legge nella più antica letteratura medica assira che, a causa di un peccato qualsiasi, il dio protettore del paziente lo ha abbandonato, ed allora il demone della malattia lo ha assalito.

E questi demoni furono poi addirittura divisi e classificati a seconda del sintomo predominante: in uno scongiuro ritroviamo elencati questi demoni patogeni: Ashakku, si attacca alla testa dell’uomo, Namtaru si attacca alla vita dell’uomo; il cattivo Utukku si attacca alla nuca dell’uomo; il cattivo Alu si attacca al petto dell’uomo; il cattivo Gallu si attacca alla mano dell’uomo; il cattivo Ekimmu si attacca al ventre dell’uomo e così via.

L’aspetto col quale questi demoni venivano raffigurati era dei più tremendi: esseri metà bestie e metà uomini, dalle facce minacciose, dai piedi d’aquila. Solo uno stato di purezza, durante il quale ciascuna persona ha la sua divinità protettrice, poteva difendere dai loro attacchi. Allorché la purezza era perduta, questa si ritirava e i cattivi demoni s’impossessavano del peccatore. Ed ecco che nasce l’idea del peccato.

Ma non solo la medicina assiro-babilonese conservò la tradizione ancestrale della possessione, ma tutti i più antichi documenti delle più vetuste civiltà offrono testimonianze: dalla medicina iranica e il suo sacro libro della Avesta di Zoroastro, alla più vetusta medicina egiziana, alla più antica dei popoli dell’India, come è dichiarato nella Atharvaveda. Non possiamo nemmeno escludere la classica Grecia, se nel suo lavoro “De morbo sacroIppocrate trova ancora necessità di combattere queste credenze e di porre al loro posto concetti naturalistici e razionali.

Ma se la malattia è data dagli dei, solo gli dei possono toglierla. Nasce in tal modo il primo concetto di divinità guaritrice: il dio guaritore è colui che ha dato la malattia. Abbiamo quindi Sekhmet, la dea più cattiva e maligna, che è anche guaritrice, quando toglie il malanno che ha cagionato. Apollo, dio medico dei Greci, è il dio della peste: guarisce quando cessa di scagliare i suoi dardi pestiferi.

Nasce quindi la necessità di una persona che faccia da tramite tra l’umano sofferente e il divino patogeno e guaritore. Questa persona, già lo sappiamo, altri non può essere che il sacerdote: citando la BibbiaEgo Dominus medicus tuus”. E’ scritto nell’introduzione del papiro di Ebers: « Il Signore del tutto mi ha dato le parole per cacciare le malattie di tutti gli Dei e le sofferenze mortali d’ogni genere”.

 




Questi, furono i primi medici: coloro che, in diretta relazione col trascendente, godevano del potere d’intercedere e di ottenere dagli Eterni la guarigione delle malattie. Sacerdoti, ma anche maghi o stregoni, arbitri del bene e del male, che soggiogavano ogni umano potere grazie ad una particolare e personale concessione della divinità che per loro mezzo ordinava, voleva ed agiva.

Caddero poi infine le bende dell’insegna sacerdotale e il medico fu finalmente soltanto un uomo, un “filosofo” della natura che ricercava l’arké della malattia e dei rimedi.

Il periodo sacrale della medicina era tramontato, ora spettava all’uomo medico farla rispettare o deridere. La responsabilità fu, ed è fino ad oggi, tutta sua.