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  NUOVE ISTANZE POLITICHE E AVVENTO DEL FASCISMO ISTITUZIONI E POLITICA AD AREZZO FRA OTTO E NOVECENTO (*)
Giorgio Sacchetti

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LA SVOLTA DI FINE OTTOCENTO

Un soggetto mai visto prima si affaccia sullo scenario socialmente convulso di fine secolo, mentre la partecipazione popolare si mantiene pressoché inesistente: è il partito, nuovo principe destinato a surrogare il catasto delle proprietà nella misura dell’esercizio del potere. Un potere che ora cerca di allargare le sue basi attraverso lo strumento inedito della sociabilità (l’Ottocento è il secolo dell’associazionismo), preludio al sistema moderno fondato sui partiti di massa. Nei decenni che intercorrono fra il consolidamento istituzionale del nuovo Regno d’Italia, dopo l’avvento della Sinistra al governo, e l’agonia dello stato liberale alla vigilia del fascismo, si assiste a svolte, rotture traumatiche, mutamenti tali da imporre - in un così pur breve lasso di tempo - il ricambio graduale fino a completa sostituzione della vecchia classe dirigente passata attraverso il vivificante crogiuolo risorgimentale. Nel frattempo anche la “stanza dei bottoni” del potere locale vede l’ingresso di nuovi inquilini. La classica contrapposizione fra Stato e società civile trova un nuovo momento dialettico nell’istituzione municipale appena riformata. L’evoluzione tuttavia avviene in compresenza di robusti elementi di continuità; questi sono appunto riscontrabili nella stessa gestione amministrativa statale periferica (si accentua il carattere politico dei prefetti) come in quella del Comune, infine nelle modalità del controllo sociale sulle “classi pericolose”. Il sindaco reso elettivo per i comuni maggiori viene bilanciato dalla creazione di una Giunta provinciale amministrativa con funzioni di controllo sugli enti locali. Tra la fase della costruzione dello Stato unitario e la prima guerra mondiale la classe dirigente liberale costituisce essa stessa elemento contraddittorio di continuità fra spinte progressiste e politiche di conservazione dettate piuttosto dalla composizione della sua base sociale. C’è una piccola borghesia intellettuale ed impiegatizia, cresciuta di peso attraverso l’acquisizione dei diplomi scolastici e con l’accesso alle professioni, che manifesta spesso una tendenza ad allearsi con le tradizionali classi dominanti. Città come l’Arezzo di fine Ottocento sono emblematiche per questo mix tra vecchie povertà e nuovi modelli borghesi, tra arretratezza plurisecolare dei servizi e delle infrastrutture e velleità di modernizzazione quasi sempre frustrate. Elisée Reclus, geografo viaggiatore, autore della monumentale “Nouvelle Géographie Universelle” (Hachette 1875-1892), dipinge Arezzo come nobile “molto decaduta” che unicamente vive solo dei “grandi ricordi e monumenti del suo passato”. Questa visione negativa, abbastanza reale, è inoltre rafforzata da una spiccata tendenza alla chiusura nel localismo della classe dirigente aretina, all’isolamento. Del resto non bisogna dimenticare che all’indomani dell’unità si era ventilata, e più volte, l’ipotesi di smembrare la provincia fra Firenze, Siena e Perugia.

Governare un incerto sviluppo industriale e creare le idonee infrastrutture, specie ferroviarie: questi i motivi conduttori di un dibattito ultradecennale e l’oggetto principale del rapporto di scambio fra nuovi ceti commerciali cittadini emergenti ed il ceto politico inviato a rappresentare questi interessi “a Roma”. La modernizzazione difficile fa il paio con il più evidente degli elementi di continuità: l’eterno conflitto città-campagna che ad Arezzo assume i connotati antichi di battaglie mai sopite fra conservazione clericale e rivoluzione borghese.

C’è dunque anche qui una “Italia contadina” che si contrappone ad una “Italia cittadina”. Sul piano politico e amministrativo la lotta, senza quartiere, si sviluppa infatti fra due schieramenti che hanno i loro referenti in queste due Italie: il moderato poi clerico-moderato da una parte ed il democratico radicale progressista dall’altra, con alterne vicende e sempre in un intreccio forte con il fecondo fenomeno della sociabilità aretina. Nel 1893 si insedia per la prima volta una giunta progressista - Duranti sindaco - che sarà costantemente ostacolata dalla cosiddetta vecchia consorteria la quale, a sua volta, dalle pagine del periodico “La Provincia di Arezzo” manifesterà la sua opposizione a che “i Comuni si occupino delle questioni sociali e politiche” invece di “eseguire lealmente le leggi emanate dai poteri dello Stato”.

La consorteria moderata aretina aveva già cambiato opinione sui temi della gestione del municipio in rapporto al potere centrale nel succedersi della Sinistra alla Destra. Ciò richiamandosi, prima del 1876, al principio che l’azione del Comune “non dovesse essere di disturbo” al governo; dopo, rivendicando al contrario la facoltà dell’amministrazione locale a “sottrarsi all’arbitrio del potere governativo”. L’esperienza, anomala per certi versi, si conclude in modo inglorioso dopo sette anni con lo scioglimento forzato del consiglio comunale a causa di irregolarità amministrative e per un disavanzo finanziario che richiede l’intervento del commissario regio. I progressisti lasceranno quindi Palazzo dei Priori ad una alleanza clerico-moderata.

Per Arezzo sono certamente gli anni ottanta dell’Ottocento, più che l’epoca dell’annessione al nuovo Stato unitario, quelli in cui bisogna collocare la cesura con l’età contemporanea. Questo periodo si caratterizza per l’avvio di un processo di mutazioni socio economiche tali da dare corpo già ai futuri connotati della moderna società aretina.


Le celebrazioni del centenario della nascita di Guido Monaco nel 1882, con i concomitanti Concorso agrario e una Mostra industriale visitata dal re, sono il segnale evidente di questa ormai incontenibile volontà di svolta epocale. Tuttavia sullo sfondo rimane sempre quella “vocazione agricola” che costituisce, nei secoli, l’elemento più corposo di continuità con la storia sociale, il carattere e le radici culturali di questa città. Gli abitanti nel territorio comunale - 38.795 al censimento 1881 - mantengono un rapporto città/campagna di circa 30/70 (un rapporto che sarà ribaltato soltanto alla metà del Novecento); gli interessi e gli orientamenti politici sono decisi da pochi. Si assiste però ad una crescita senza precedenti del fenomeno della sociabilità in ogni campo, da quello del mutuo soccorso a quello economico e politico, a quello culturale. Basti citare, a quest’ultimo proposito, le vivaci presenze fra le altre dell’Accademia Petrarca, della Società Filarmonico-Drammatica, della Banda musicale Guido Monaco, della Società del Tiro a Segno, di quella degli Studenti, ecc..; e le molte testate giornalistiche che si pubblicano in città proprio a partire dagli anni Ottanta. Ma sono i moderati che controllano Comune, Provincia e Società Operaia.

La Massoneria aretina, presenza ormai secolare in città ed in provincia, è trasversalmente coinvolta in tutto il complesso fenomeno di questa sociabilità. Numerose ed attive sono le varie logge (“Cesalpino”, “Cairoli”, “Verità”, ecc.); ed i protagonisti, magari diversamente schierati nelle varie correnti della Sinistra storica, spesso sono gli stessi: da Leonardo Romanelli a Giovanni Severi, da Pietro Mori a Angiolo Mascagni, a Ettore Nucci, ecc... Un posto importante nell’associazionismo cittadino spetta alla Società di Mutuo Soccorso fra gli Operaj ed Operaje - giuridicamente riconosciuta dal 1886 - fondata da Gian Francesco Gamurrini, insigne archeologo e storico, bibliotecario della Fraternita dei Laici, membro dell’Accademia Petrarca.

Tutto il periodo postunitario fino agli anni Novanta si caratterizzerà per l’egemonia di “un ristretto nucleo di famiglie maggiorenti e di personaggi illustri” che si alternano nelle varie cariche ed istituzioni cittadine, nei seggi parlamentari. Le tracce più profonde sono quelle lasciate dai “garibaldini” Mori e Severi anche se si volge ormai verso un’epoca che riserverà un ruolo maggiore ai partiti ed alle aggregazioni politiche ed uno più defilato per le individualità. Pietro Mori (1819-1902) è l’ultimo gonfaloniere ed il primo sindaco di Arezzo, tipico esponente della nuova classe dirigente che emerge dai ceti borghesi del commercio. Si trova alla ribalta delle cronache cittadine e nazionali prima per l’ospitalità concessa a Garibaldi all’epoca di Mentana, poi per un attentato politico senza consequenze gravi subito nel 1883. La sua collocazione politica è comunque da ritenersi intermedia ed ondeggiante fra moderati e progressisti. Giovanni Severi (1843-1915) avvocato penalista, appartiene invece ad una illustre famiglia aretina, è deputato dal 1881; garibaldino, incarna presso i suoi concittadini il vero mito risorgimentale. Radicale e amico di Cavallotti aderirà al gruppo parlamentare dell’Estrema. Insieme al suo avversario politico on. Landucci funge da terminale “romano” per le istanze aretine. Nominato a 60 anni senatore da Giolitti, subirà aspri attacchi dagli ambienti repubblicano - socialisti.
Sono anche gli anni in cui si mette mano alle grandi infrastrutture urbane, si ripensano le grandi vie di comunicazione (ferrovia soprattutto). Dal capoluogo di provincia, appena raggiunto dalla Firenze - Roma, si irraggiano le nuove linee ferroviarie Arezzo - Stia e la Arezzo - Fossato di Vico. Nasce la Banca mutua popolare aretina società anonima mentre le tradizionali attività artigianali sono in via di lenta evoluzione verso un’economia industriale e questa si pone in alternativa ai tradizionali investimenti fondiari; emergono anche nuovi ceti nel commercio. C’è tutta una società cittadina borghese che si sta modellando in antitesi a quella di campagna, in antitesi al vecchio mondo rurale identificato da sempre nell’immobilismo di quell’aristocrazia conservatrice (clericale o moderato-liberale) legata, appunto, alla proprietà fondiaria.

Anche l’assetto urbano subisce notevoli cambiamenti: il più importante è l’apertura di via Guido Monaco, ampia e diritta che simbolicamente unisce il “progresso”, rappresentato dalla ferrovia, con il cuore della città antica; ciò grazie all’impulso del piano regolatore del 1867, il primo di concezione moderna per Arezzo. Le barriere rimpiazzano le antiche porte; siamo agli inizi del processo di dissoluzione della città murata ed al primo espandersi dei sobborghi di Saione, Santa Croce e San Lorentino. Il volto di Arezzo sembra cambiare forse ad una velocità maggiore delle condizioni socio-culturali degli aretini; via G.. Monaco non adempirà mai a pieno alla funzione di “salotto buono” pensata dagli ideatori.

La questione ferroviaria sarà comunque l’assillo principale per le classi dirigenti ed emergenti cittadine nei decenni postunitari ed oltre. La realizzazione dell’unica direttrice dorsale ridimensiona le velleità di Arezzo a trasformarsi in importante snodo per l’Italia centrale. Su questi aspetti si era consumata anche una annosa querelle con Firenze le cui autorità brigavano per escludere le provincie di Arezzo e Perugia dal collegamento diretto con Roma proponendo una deviazione della linea all’altezza di Bucine verso Torrita. E questa sarà una costante nelle vicende ferroviarie dell’Italia centrale spesso incentrate su campanilismi e sentitamente su di una pretesa egemonia degli interessi fiorentini.

Le autorità periferiche dello Stato - da veri “corpi estranei” - sembrano comunque non cogliere a pieno tutti i connotati e le contraddizioni della incipiente modernizzazione in atto nella società aretina. Il reggente la prefettura Cesare Balladore nella sua relazione annuale del 1892 al ministero coglie una certa differenza fra le attitudini delle classi povere urbane “organizzate in associazioni” e quelle “mitissime” della campagna. Sullo sfondo rimane la questione della miseria e delle cosiddette classi pericolose, un problema a cui si cercherà di porre rimedio attraverso o la filantropia e l’azione dei vari enti pii o gli espliciti interventi repressivi.

La riforma dello Stato attuata da Crispi (e varata nel 1889) aveva previsto radicali cambiamenti nella struttura del Comune rispetto alla prima fase unitaria. Sono rese pubbliche le sedute dei consigli; il suffragio elettorale amministrativo viene esteso a tutti i cittadini maschi, alfabeti e che paghino almeno cinque lire annue di imposte dirette; si introduce il sindaco elettivo in vece di quello di nomina regia; il controllo sugli atti dei comuni viene sottratto però alla Deputazione provinciale ed affidato ad una nuova Giunta provinciale amministrativa presieduta dal prefetto. Nel complesso comunque si tratta di un grosso colpo ai notabilati locali attuato allargando contestualmente le basi del consenso. Ad Arezzo il 1892 vede l’insediamento - che in realtà è una conferma - del primo sindaco eletto in applicazione alla nuova legge. Si tratta del moderato Angiolo Mascagni (1840-1915) che, rinunciando seduta stante alla carica, apre un periodo di crisi politica nell’amministrazione municipale, crisi che porterà di lì a poco ad un cambio della guardia.

Negli anni Ottanta vi era stato un alternarsi rapido di sindaci moderati fra i quali, oltre al Mascagni, è Ettore Nucci (1836-1886) a lasciare l’impronta meno fugace a causa del suo impegno per le “opere pie”.

 

LA STAGIONE LAICA PROGRESSISTA E IL “CLERICO-MODERATISMO”

Il clerico-moderatismo è da considerarsi un fenomeno di lungo periodo ed a basi economiche, espressione di un blocco sociale che, come abbiamo visto, aveva avuto la sua genesi negli anni Ottanta dell’Ottocento, nel periodo cioè del decollo industriale italiano, protraendosi poi nell’età giolittiana. Il termine sta ad indicare la partecipazione del movimento cattolico sia al blocco industriale agrario protezionista, sia alla alleanza politica successiva con i liberali. In ambito aretino gli anni Novanta vedono il clerico-moderatismo, non ancora ben strutturato in una alleanza politica elettorale, cedere il passo agli avversari laico - progressisti. Questo, dopo un trentennio di egemonia moderata, appare il logico epilogo della spinta alla modernizzazione degli anni precedenti; il risultato di una lunga battaglia condotta attraverso i giornali laici locali - primo di tutti “L’Appennino” - e la rinnovata presenza nelle associazioni, nella Società Operaia soprattutto (525 aderenti nel 1895) a cui si imprime un più spiccato orientamento sociale con la promozione ad esempio delle “Cucine economiche” che distribuiscono fra il 1891 e il ‘94 oltre 60.000 razioni agli indigenti.

Il governo del Municipio, e anche la rappresentanza parlamentare (torna Severi sui banchi dell’Estrema), diventano dunque appannaggio del nuovo blocco sociale borghese originato dal mondo delle professioni e dei ceti commerciali imprenditoriali. Dall’epoca dell’unità d’Italia questa è la prima sconfitta subita dalla consorteria moderata aretina, dal sistema di potere appoggiato dalle gerarchie ecclesiastiche e dall’aristocrazia terriera. Il risultato delle amministrative dell’agosto 1893, che vede una schiacciante vittoria dei candidati della Società democratica progressista contro quelli del comitato che riunisce Federazione Monarchica Liberale e Circolo “Sempre avanti Savoia!”, viene indubbiamente facilitato dall’adozione di un nuovo sistema di ripartizione delle frazioni del Comune, tale da diminuire il peso dell’elettorato di campagna; ad esso infatti, disperso in sei delle sette nuove frazioni, spetta solo la metà dei consiglieri. L’astensione dal voto raggiunge i 2/3. Il sindaco espresso dalla nuova maggioranza è Guglielmo Duranti (1864-1931), avvocato massone affiliato alla Loggia Cairoli di cui l’on. Severi è Venerabile. Rimarrà in carica per sette anni connotando il proprio mandato in senso anticlericale, dando sempre vasta eco alle celebrazioni del XX Settembre, a tutte le tipiche battaglie di laicizzazione della società, alla diffusione dei principi cremazionisti, alle iniziative solidaristiche. E’ anche membro del Comitato generale del congresso dei sindaci italiani, organismo nel quale dà un suo contributo fattivo sui temi del decentramento amministrativo, della riforma tributaria e delle finanze comunali. Nel 1896 Duranti si oppone alla partecipazione del Municipio alle feste centenarie della Madonna del Conforto in omaggio al principio della separazione fra i poteri civile e religioso.

Il programma progressista si riassume nei termini: modernizzazione e questione sociale. I moderati lo criticano per la scarsa originalità in quanto si tratterebbe di temi già presi in considerazione precedentemente ed irrisolti per mancanza di mezzi finanziari. La città in questo periodo vede, insieme ad una crescita demografica, anche un relativo incremento delle piccole attività industriali (officine meccaniche) e manifatturiere. Ciò a fronte di stridenti contrasti: l’immobilismo dell’ambiente agrario e una miseria tragica delle classi subalterne; questa, resa visibile dentro le mura cittadine dalle condizioni igieniche complessive spaventose e dal numero crescente dei mendicanti, fenomeni questi testimoniati anche dal geografo Eugène Muntz e da Carlo Signorini. La Giunta - che ha ereditato debiti per due milioni di lire - tenta comunque di intervenire sulla situazione sociale proponendo modifiche, peraltro non sempre ratificate dall’organo provinciale di controllo, sul sistema di riparto della tassa di famiglia; oppure affidando lavori pubblici alle cooperative operaie. Ai ceti commerciali si promette, senza troppi successi però, di disciplinare il fastidioso commercio girovago. La Fraternita dei Laici continua nell’assistenza di ben definite categorie di poveri quali i “vergognosi”, le vedove e gli orfanelli, opponendosi però all’obbligo di accollarsi anche le spese per i ricoveri ordinati dalle autorità di pubblica sicurezza. Segno evidente questo della misura di un problema. Ed è proprio con quell’ente che la nuova amministrazione apre un contenzioso reclamando il passaggio al Municipio dei servizi cimiteriali e dell’acquedotto gestiti dalla Fraternita.

A vanto della gestione progressista del municipio va la realizzazione, fra i primi in Toscana, dell’impianto di illuminazione elettrica, portata a termine nel ‘95 con un contratto di concessione alla milanese Reinacher e Ott. Un altro punto qualificante del programma Duranti è la “vuotatura inodore dei bottini”, anche questo avversato dall’opposizione in quanto ritenuto spesa superflua ed anche dannosa per l’agricoltura per il conseguente inutilizzo dei materiali per i concimi. Inoltre, in coerenza con la filosofia urbanistica ispirata dal piano regolatore del 1867 e grazie all’impulso dell’ingegnere Umberto Tavanti, si progetta proprio in questi anni Novanta quello che sarà l’assetto urbanistico dell’Arezzo del Novecento, totalmente rinnovato a sud dopo l’abbattimento di Porta S. Spirito e con la Fortezza medicea sistemata a pubblico giardino. L’ampliamento dei piazzali ed una sistemazione migliore per la stazione ferroviaria di Arezzo saranno poi tematiche fatte oggetto di ripetute interrogazioni parlamentari dell’on. Severi.

L’Arezzo di fine secolo aveva visto anche svilupparsi, partendo da un forte associazionismo di mestiere, le prime esperienze organizzate del movimento operaio socialista e anarchico; un socialismo che si dibatte fra tutela democratico - radicale (spesso è il periodico “L’Appennino” che se ne fa portavoce) e sovversione sociale, stroncato nelle sue potenzialità autonome con la grande repressione crispina del 1894 e con il domicilio coatto, risorto poi nella sua forma legalitaria con l’Unione Socialista Aretina.

A fronte di tutto questo l’opposizione clerico-moderata lancia il suo manifesto per il... “Socialismo vero”: contrapposto a quello anticristiano degli anarchici che non vuole riconoscere neppure l’autorità divina e predica addirittura la ribellione ai legittimi poteri dello Stato.

Le elezioni politiche, e quelle quasi concomitanti amministrative, del 1895 costituiscono un’importante verifica per i radicali aretini. Severi viene eletto deputato; Duranti viene confermato sindaco mentre i clerico-moderati, per quanto non riescano neppure questa volta a stabilizzarsi in una alleanza elettorale organica, migliorano le loro posizioni grazie anche ad accordi informali fra la Federazione Monarchica ed i cattolici della neocostituita Unione Aretina. Ed anche due anni dopo le elezioni politiche riconfermano alla Camera “il padrone di Arezzo”, così viene chiamato Severi dagli avversari, che questa volta però vede le sue preferenze nel collegio ridimensionate a sinistra da quelle ottenute dal candidato socialista Bernardini. Ciò mentre perdura da parte dei cattolici un atteggiamento astensionista. Le elezioni politiche del 1897 vedono nel collegio aretino il seguente risultato per 2220 votanti su 5560 iscritti: 1690 voti al radicale Severi, 224 al socialista Bernardini, 190 al monarchico costituzionale Petri.

“Soppressioni, scioglimenti, perquisizioni e sequestri” sono gli aspetti di un rinnovato clima repressivo che anche nella provincia aretina si manifesta nel 1898 in concomitanza delle cannonate sparate a Milano da Bava Beccaris. Anche ad Arezzo si proclama lo stato d’assedio ed il comando delle forze di polizia viene assunto dal generale Heusch (già “benemerito” nei fatti di Lunigiana del 1894). L’ordine pubblico in città e nelle campagne era stato turbato da violazioni di proprietà nei granai e nei magazzini di generi alimentari ad opera di gruppi incontrollati; e questo aveva indotto il sindaco ad organizzare un magazzino municipale con il prezzo del grano calmierato. Questa volta, a differenza di quanto si era verificato nel ‘94, la scure sabauda si abbatte non solo sulle forze del socialismo sovversivo (peraltro incolpevole) ma anche su quei settori intransigenti del movimento cattolico, alieni dal costituire con i liberali alleanze clerico-moderate e fautori della “Democrazia cristiana”. Ad Arezzo il R. Commissario Heusch dispone la chiusura del periodico cattolico “Il Risveglio” il quale - a detta del locale foglio liberale - avrebbe usato un linguaggio “che non si addice ai seguaci di Cristo”.

L’ultimo periodo della gestione Duranti si caratterizza per l’infittirsi delle polemiche intorno al crescente disavanzo del bilancio comunale. Una circolare del ministro Pelloux aveva già richiamato i prefetti ad un maggior controllo “sugli abusi che avvengono nelle pubbliche amministrazioni”. I principali capi di accusa formulati dai moderati sono: l’impegno delle rendite prima di averle ottenute ed il ricorso troppo frequente ai prestiti della locale Cassa di Risparmio; i troppi favoritismi alle società cooperative; il numero eccessivo degli impiegati assunti; l’illuminazione elettrica voluta affrettatamente; le spese incontrollate per spedalità, scuole elementari e per l’istituzione della banda musicale; e, non ultimo, un episodio di concussione nel quale si trova coinvolto un ispettore della polizia municipale. La vittoria di Pirro dei radicali alle elezioni amministrative parziali del 1899 non cambierà una situazione politico-amministrativa ormai compromessa. Ed anzi questa è l’occasione in cui si ricompatta l’alleanza clerico-moderata, protagonisti Angiolo Mascagni, Santi Occhini, Luigi Occhini, Eliseo Sarri. L’esperienza del governo municipale progressista termina con lo scioglimento del consiglio comunale - preceduto dal trasferimento in Sardegna del prefetto Benedetto Vilfredo Giustiniani, sgradito ai moderati - e la nomina del Commissario regio Vittorio Ballauri. Il provvedimento è motivato dalla mancata presentazione del bilancio 1900 nei termini di legge e dal reiterato ricorso non autorizzato al prestito bancario. Vani risultano l’interrogazione alla Camera di Severi che chiede ragione della vicenda e la memoria inviata dal sindaco al ministero dell’interno.

 

IL NUOVO BLOCCO SOCIALE

Il periodo del mandato amministrativo di Antonio Guiducci, sindaco di Arezzo dal 1900 al 1909, si inserisce in una cruciale fase di transizione sui piani locale e nazionale. Liberale, ma al tempo stesso espressione del ceto possidente conservatore, Guiducci incarna la prima esperienza di alleanza clerico-moderata per il governo della città: esperimento politico e battistrada imperfetto, banco di prova per un blocco sociale che si consoliderà durante la guerra europea. Esso si realizza con la preventiva emarginazione da parte di ciascuno dei contraenti, liberali e clericali, delle rispettive ali estreme di intransigenza.

La giunta si insedia a Palazzo dei Priori subentrando alla gestione settennale del sindaco Guglielmo Duranti che, al contrario, era stata la prima amministrazione progressista (ad accentuate venature laiciste) ad Arezzo. Le due contrapposte vicende comunali avranno un epilogo simile, inglorioso, a causa delle “irregolarità amministrative” rilevate ogni volta attraverso interventi delle opposizioni e aggressive campagne stampa: della vecchia consorteria (di cui è portavoce “La Provincia di Arezzo”) nel primo caso, degli ambienti radicali massonici (“L’Appennino”) nel secondo. I giornali, per la prima volta, assumono un ruolo determinante nella battaglia politica. Se la giunta progressista si era qualificata per la forte spinta modernizzante, la gestione dei clerico-moderati si caratterizza almeno per alcuni progetti di riforme che, sebbene non portati a compimento, hanno il pregio di mobilitare l’opinione pubblica. Si tratta: dell’abolizione delle barriere daziarie - con la conseguente liberalizzazione del commercio e la trasformazione di Arezzo in “comune aperto”-; dell’applicazione di una tassa sui beni immobiliari con aliquote progressive; dell’aumento della misura massima della tassa di famiglia. Tali progetti di riforma, colpendo la piccola proprietà immobiliare e le famiglie numerose in funzione della loro ricchezza, riescono a rompere il fronte delle opposizioni. I socialisti danno il loro assenso alla proposta della giunta clerico-moderata lasciando nel più totale isolamento il gruppo radicale che, da sempre, aveva fatto barricate nella difesa degli interessi dei ceti urbani delle professioni e del commercio.

L’epoca del sindaco Guiducci coincide con lo snodo politico nazionale giolittiano. Fermenti sociali e irrequietezza culturale segnano questa fase di incubazione del “secolo breve”. Nel territorio aretino, mentre giunge a compimento il lungo percorso di insediamento del nuovo blocco sociale post-risorgimentale, nascono e si sviluppano le organizzazioni del movimento operaio.

In un contesto urbano segnato da un costante incremento demografico e da un debole processo di industrializzazione (tipografie, fonderie, una filanda, fornaci di laterizi, officine, ecc..) che mantiene precaria la situazione sociale, si apre per i moderati una lunga stagione di governo locale. Questi manterranno le redini del potere – a parte la parentesi 1911-’13 – fino all’avvento del Fascismo; cogestendo operazioni di “industrialismo assistito” quali il progettato insediamento di una grande officina di costruzioni di materiale ferroviario (mentre le condizioni della stazione rimarranno a lungo inadeguate).

Alle elezioni politiche del giugno 1900 il cartello progressista aretino, con la sconfitta personale di Severi, realizza una vera débâcle confermata nel ballottaggio vinto dal moderato (poi giolittiano) Lando Landucci. Questi verrà ancora confermato nella rappresentanza aretina alla Camera nel 1904 e nel 1909. Severi sconfitto è nominato senatore. Ciò mentre i radicali si impegnano sempre più in una politica “bloccarda” ed antigiolittiana.

Il 29 luglio 1900 – giorno infausto per Casa Savoia e per il “Re buono” – i progressisti aretini perdono il Comune contro l’alleanza dei clerico-moderati. Nell’agosto è eletto sindaco Antonio Guiducci; “regnerà” nove anni con alterne vicende ed episodi ripetuti di dimissioni annunciate e rientrate. Come primo atto la nuova giunta proclama sei mesi di lutto cittadino per onorare Umberto I. L’ex sindaco progressista, divenuto consigliere, Duranti attacca il suo successore presentando un’interrogazione sul programma. Sulle grandi problematiche cittadine – egli afferma – gli intenti degli amministratori appena insediati non sembrano chiari: acquedotto, cimitero, istruzione pubblica, patronato scolastico, tariffe daziarie, sovrimposta sui terreni e fabbricati, linea ferroviaria Arezzo - Sinalunga. L’interrogante giudica poi inammissibile “che un partito monarchico liberale possa fare alleanza coi clericali che sono i nemici più formidabili della libertà e dell’unità d’Italia”. Guiducci replica che il patto è circoscritto al solo ambito amministrativo. Un cambiamento epocale si registrerà di lì a poco con l’approvazione di un ordine del giorno per l’insegnamento religioso nelle scuole elementari.

Con la nuova giunta prende corpo anche un comitato cittadino per le onoranze a Francesco Petrarca e per l’erezione di un monumento. Il progetto, nonostante sia confortato da un’apposita legge (11 luglio 1904, n. 388) e mobiliti la classe intellettuale cittadina, rimarrà inattuato per un quarto di secolo. Nel 1905 l’amministrazione moderata si rende responsabile di mancanze contabili amministrative (omessa presentazione dei bilanci) analoghe a quelle addebitate alla giunta progressista nel 1900. Il rinnovo parziale del consiglio comunale nel 1906 conferma comunque in pieno il successo moderato di sei anni prima. Questa volta l’alleanza politica per il governo della città diventa organica; l’Unione Cattolica Aretina aderisce all’Unione dei Partiti costituzionali. Ed anche Guiducci, dopo le ennesime dimissioni rientrate, ne esce politicamente rafforzato.

Una rinnovata presenza politica di cattolici e socialisti caratterizza questa fase. Per i primi si delineano due filoni divergenti: quello tradizionale dei clerico-moderati ed un altro, eterogeneo, legato ai fermenti sociali ed alle istanze di rinnovamento religioso espressi nelle dissidenze del movimento della prima Democrazia Cristiana e della “crisi modernista”. Ad Arezzo come altrove questo movimento, che registra qualche presenza non marginale, subisce le conseguenze della condanna papale con il vescovo Volpi che si distingue nella adozione di provvedimenti repressivi disciplinari verso sacerdoti e associazioni cattoliche sospetti di simpatie moderniste. Quanto alla categoria del clerico-moderatismo, Luigi Sturzo (“Popolarismo e fascismo”, 1924) vi individuerà un fenomeno a valenza conservatrice precursore del clerico-fascismo. Il programma municipale dei cattolici italiani, formulato da Sturzo fin dal 1902, è una vera antitesi a quello clerico-moderato, atto di denuncia contro i mali dello Stato accentratore.

Il programma socialista per la “conquista del Comune” si delinea già dopo le prime esperienze di governo locale fatte da esponenti del partito sentitamente in alcune zone del Regno e per tutta l’età giolittiana. Nel nome di Andrea Costa, questi i capisaldi: municipalizzazioni dei servizi; politica dei consumi e calmiere dei prezzi; politica del lavoro; istruzione e cultura (biblioteche, doposcuola e refezione per i figli dei lavoratori); igiene, edilizia, risanamento dei quartieri urbani degradati; trasformazione del carattere di elemosina della beneficenza in vero e proprio servizio di previdenza e assistenza, quale “legittimo diritto per le classi proletarie”. Il socialismo aretino degli albori del Novecento, già depurato dalle frange sovversive con la repressione crispina, si trova ora a svolgere la funzione di “sinistra interna” al radicalismo locale.

La Camera del lavoro, fondata nel 1901, si distinguerà per la sua politica di moderazione tutta funzionale alle vicissitudini elettorali delle tre frazioni dei partiti popolari, in continuità con il solidarismo aclassista tipico delle precedenti esperienze mutualistiche. Essa esordisce chiedendo un sussidio al Comune e un locale per le riunioni. Ma ogni aiuto pubblico alla nuova istituzione, nonostante gli sforzi degli esponenti politici progressisti, verrà sempre negato. Questo “sindacalismo” si dimostrerà inadeguato, tanto da concludere la sua parabola in soli quindici anni, con gli iscritti che si riducono a 100 dai 1400 iniziali! È la fase in cui emergono nel socialismo aretino esponenti come Giovanni Droandi, Luigi Mascagni, Arnaldo Pieraccini, Felice Ceramicola, personaggi, non esattamente di estrazione proletaria, accomunati da una matrice culturale laica post-risorgimentale rigeneratasi nell’umanitarismo socialista, nell’impegno per i diseredati. Tutti si sono formati nei ranghi progressisti, tutti provengono dal ceto borghese delle professioni “vicino al popolo”.

Il programma amministrativo dei socialisti aretini è pronto dal 1906: scuole laiche, case operaie, municipalizzazione dei servizi gestiti dalla Fraternita dei Laici, spacci comunali, trasferimento dell’ospedale, abolizione del dazio di consumo e sovvenzioni comunali alla Camera del lavoro.

Arezzo, capoluogo di un territorio a vocazione agricola, vede la nascita del suo primo grande insediamento industriale in questo primo scorcio di Novecento, segno premonitore di un grande cambiamento sociale e antropologico culturale. Tutto incomincia con un bando, un avviso di concorso della Camera di Commercio, che stanzia un premio di 50.000 lire per l’impianto di uno stabilimento “allo scopo d’incoraggiare l’incremento industriale in Arezzo”. L’ottimismo della commissione amministrativa che presiede all’esame delle domande dei concorrenti deriva da varie considerazioni. Si tratta di un premio di una certa entità. Poi ci sono le condizioni ambientali favorevoli: l’abbondanza di mano d’opera “a miti condizioni” e la fama di docilità di cui godono le classi subalterne aretine; la posizione della città sulla linea Firenze - Roma assume un valore strategico; a questo si aggiungono la facilità di usufruire della forza motrice elettrica; l’appoggio certo di tutte le amministrazioni locali. Il comune di Arezzo, mentre si delinea l’interessamento di un’importante società di costruzioni ferroviarie, si impegna ad erogare un premio suppletivo di 25.000 lire, a concedere ogni possibile facilitazione nelle autorizzazioni per la viabilità connessa allo stabilimento, nel raccordo binari, nell’acquisto dei terreni necessari a prezzi vantaggiosi. Il 9 ottobre 1906, nella sede del municipio, si stipula la convenzione fra il sindaco Guiducci ed il vice presidente della Società Anonima Costruzioni Ferroviarie e Meccaniche di Firenze Ezio Rosi. Quest’ultimo si impegna ad impiantare in città un’officina per la produzione di macchine agricole e di materiale rotabile e fisso per ferrovie che occupi in maniera permanente almeno duecento operai. Il comune riconosce alla società il premio ed i benefit pattuiti ed assicura all’impresa “l’esenzione dalle tasse comunali per anni trenta”. La società fiorentina, da parte sua, si impegna ad “adattarsi” alla realtà economica locale concentrandosi sulla sola produzione di vagoni ferroviari. Con l’anno 1907 la SACFEM inizia il suo ciclo pluridecennale.

Intanto la dialettica fra maggioranza e opposizione in comune continua ad essere improntata ad uno spirito di aggressiva polemica. I risultati delle elezioni del luglio 1908 per il rinnovo parziale del consiglio vengono contestati. Radicali e socialisti presentano ricorso alla Giunta provinciale amministrativa con la richiesta di annullamento del risultato elettorale. L’accusa è quella di aver violato la segretezza del voto, e quindi falsato il risultato, attraverso l’uso di schede di formato più piccolo e riconoscibili. Nella concitazione del dibattito il sindaco propone ancora le sue dimissioni salvo poi farsi rieleggere.

L’ultima stagione unitaria fra democrazia radicale e movimento operaio si vive ad Arezzo negli anni 1909-’11 quando, a seguito del movimento internazionale di protesta per la fucilazione in Spagna di Ferrer “martire del Libero Pensiero”, si realizzano congiuntamente iniziative pubbliche anticlericali. Il Comune, sollecitato a prendere posizione, si astiene rifiutando di intestare a Ferrer la piazzetta del Seminario. Radicali, socialisti e repubblicani firmano insieme un manifesto di protesta contro la processione del Corpus Domini (svoltasi in Arezzo il 2 giugno 1910 in concomitanza dell’anniversario di Garibaldi). Anarchici e socialisti rivoluzionari promuovono in tutta la provincia manifestazioni anticlericali di piazza che sfociano talvolta in violenti disordini.

L’opposizione dei partiti popolari alla giunta moderata si intensifica (dopo le dimissioni definitive del sindaco Guiducci nel 1909) sui temi sociali, in particolare sulla tassa di famiglia per la cui riforma si minaccia un possibile “sciopero dei contribuenti”. “L’Appennino” appoggia questa campagna. La prima seduta del consiglio comunale all’indomani delle dimissioni del sindaco si conclude con l’intervento in aula della forza pubblica. Anche al pro-sindaco Lelli – succeduto nel frattempo ad Occhini, sindaco per pochi mesi – i “bloccardi” manifesteranno il loro dissenso.

Intanto la questione viabilità torna in auge. Nasce un “Comitato per la difesa di Arezzo” per la costruzione della linea ferroviaria per Sinalunga; questa renderebbe impossibile l’apertura minacciata del tratto Bucine - Rapolano, tratto che taglierebbe fuori la città dalle vie di comunicazione con Roma.

Alle amministrative parziali del 1910 vincono i partiti popolari. I moderati si rifiutano però di dimettersi provocando la nomina del commissario regio Carlo Durante.

L’età giolittiana vede anche ad Arezzo un grande sviluppo delle organizzazioni del movimento operaio e socialista. Nel 1911 ritorneranno, ma per poco, i partiti popolari all’amministrazione del Comune con una giunta mista che vede anche la presenza dei socialisti. Ma avvenimenti a carattere nazionale, come la crisi irreversibile del Partito Radicale e la svolta rivoluzionaria del PSI (non ultima la dichiarata incompatibilità fra appartenenza al partito e alla Massoneria), determinano il distacco definitivo degli esponenti “operai” dai blocchi popolari.

Il blocco popolare riconquista dunque il Comune e quattro consiglieri su sedici “bloccardi” sono socialisti (Arnaldo Pieraccini, Luigi Mascagni, Donato Badii e Felice Ceramicola). Il nuovo sindaco è Ugo Mancini (1868-1951). Fra i primi interventi, uno a favore dei 400 operai dell’industria metallurgica SACFEM, a rischio licenziamento causa la diminuzione di commesse da parte delle Ferrovie dello Stato. Il programma è una conferma di quelli precedenti ivi compresa la proposta di sussidio alla Camera del Lavoro. Il fronte clerico-moderato si era incrinato nelle amministrative parziali dell’anno precedente a causa dell’astensionismo propugnato dai cattolici che contestavano la decisione di aumentare la sovrimposta fondiaria. La divisione aveva così favorito il blocco popolare, vincitore per motivi contingenti e per demeriti degli avversari. Ben presto però i socialisti, specie dopo le direttive del congresso nazionale di Reggio Emilia del 1912 (uscita dai blocchi popolari ed incompatibilità con l’appartenenza alla massoneria), decidono di rompere l’alleanza “bloccarda” appena formata con le dimissioni dei propri consiglieri, mentre un gruppo di dissidenti (fra cui Ceramicola e Droandi) escono dal PSI.

Le elezioni politiche del 1913, le prime a suffragio universale maschile, vedono l’attuazione anche ad Arezzo – dove risulta eletto deputato Lando Landucci – del “Patto Gentiloni” con il quale si orienta il voto cattolico verso quei candidati che si impegnino nel noto “Eptalogo” contro i principi di laicizzazione della società. Landucci del resto, in quanto “non massone” risulta gradito anche al vescovo Volpi. Il Partito Radicale aveva nel frattempo dichiarato la sua neutralità fra i contendenti.

Alle amministrative del 1914 liste clericali e clerico-moderate ottengono una netta affermazione in tutta la Toscana. I risultati ad Arezzo non si discostano da questa tendenza: sconfitta democratica, affermazione socialista e vittoria clerico-moderata con l’avvento del nuovo sindaco Camillo Lelli (sarà a capo della giunta per tutto il periodo della guerra). È il punto di arrivo di un lungo percorso, sintesi di istanze prima frammentarie. Per la prima volta Arezzo ha un sindaco che presenta, tutte insieme, queste caratteristiche: liberale e monarchico di sicura fede; eletto da un’alleanza clerico-moderata organica e quindi con il placet delle gerarchie cattoliche.

 

PRODROMI LOCALI DELLA “GUERRA CIVILE EUROPEA”

Vero “atto di nascita della guerra civile europea” (una guerra di lunga durata o dei trent’anni, come è stata definita) la conflagrazione bellica del 1914 sconvolge tutti gli schieramenti politici. Ed inaugura un ciclo che chiuderà la sua prima fase nel ‘45.

Il nuovo secolo si era presentato con il volto inedito della rappresentazione culturale della politica e, per dirla con Croce, della incolmabile discontinuità di questa con l’azione. Gli anni Dieci sono il clou di un febbrile laboratorio socio-culturale dove si misurano anche illusioni ed ambizioni insoddisfatte; sono quelli dell’irrequietudine, dei fermenti letterari, delle rotture culturali. Anni fecondi per la creazione / agitazione di quegli stereotipi caratterizzanti che costituiranno la cesura definita fra il vecchio e il nuovo mondo, alla radice dei futuri movimenti élitari e di massa del Novecento, in un rapporto antagonista ma anche dialettico fra ordine e sovversione dell’ordine. Ed il rinnovamento riguarda tutti i vari aspetti della società, costume e linguaggi prima di tutto (paragonabile, per impatto culturale, a quello che interesserà le giovani generazioni di mezzo secolo dopo).

Il dopoguerra metterà in evidenza soprattutto, sia pure in fugaci esperienze di governo locale, esponenti dei nuovi partiti di massa alieni, per un verso o per l’altro, alla democrazia radicale quanto al vecchio mondo liberale. La “questione sociale” avanzata un quarto di secolo prima dai progressisti come tematica del governo locale si farà “questione socialista”.

Ad Arezzo il massimo della convulsione politico-sociale si raggiunge nell’arco di tempo che va dalla “settimana rossa” al “maggio radioso” del 1915.

Negli ambienti politici locali, esclusi i partiti che si richiamano al movimento operaio, la posizione più prudente nei confronti degli avvenimenti in corso viene espressa da “L’Appennino”. Pur riconfermando la comunanza di intenti con il socialismo riformista, particolarmente per il programma di legislazione sociale, i radicali aretini precisano la loro equidistanza fra i due sovversivismi in campo: quello del “sindacalismo catastrofico” di una Camera del lavoro che non controllano più; quello “ferocemente reazionario” e clericale dell’Agraria. Il radicalismo si rivela sempre più come un movimento ormai invecchiato e poco attento ai nuovi fermenti politici in atto.

Alla vigilia della guerra europea si erano evidenziate varie ed articolate posizioni pro e contro l’intervento.

I socialisti aretini, salvo qualche eccezione (fra cui Giovanni Droandi, peraltro già fuori dal partito), si mantengono allineati con le direttive di neutralità assoluta ispirate dal partito a livello nazionale e che sono rispecchiate dal foglio locale “Il Lavoratore”. Ma neutralisti sono anche i liberali “storici”, ed i clericali che si ispirano a monsignor Volpi, che non prendono alla leggera la lunga alleanza mantenuta dall’Italia con gli Imperi Centrali. Se ne fa portavoce “La Provincia di Arezzo” che fino all’ultimo - salvo poi adeguarsi - non nasconde le sue simpatie “austriacanti”; ciò in polemica con lo schieramento interventista filo-francese considerato come egemonizzato dalla massoneria. Più coerenti si dimostrano i liberali democratici che, dalle colonne de “La Vedetta Aretina”, si distinguono per animosità contro gli “slombati pacifisti italiani”. Interventisti anche i radicali impegnati “contro preti rossi e preti neri”. Per il disfattismo antimilitarista si era invece pronunciato il gruppo degli anarchici aretini e la Federazione giovanile socialista. Nelle piazze cittadine i due schieramenti contrapposti si fronteggiano a lungo. Ma con l’intervento sopravviene in tutta la provincia, come nel resto del paese, una calma improvvisa; cessa ogni manifestazione pubblica pacifista. I primi comizi nazionalisti indisturbati si tengono ad Arezzo in occasione della partenza dei soldati per il fronte, il 23 e il 24 maggio.

Il movimento nazionalista si era presentato sullo scenario politico come rappresentante della borghesia produttiva e del proletariato produttivo, unificati finalmente in fabbrica ed in trincea. La sua incidenza non può essere ridotta a petite histoire proto-fascista; si tratta piuttosto di una storia di lungo periodo che attraversa le vicende italiane, politiche ed economiche, dall’epoca dei governi della Sinistra storica al ventennio fascista. E ad Arezzo è attivo fin dal 1911 (epoca della guerra italo – turca) un nutrito gruppo di intellettuali nazionalisti capeggiato da Pier Ludovico Occhini, amico e collaboratore di Corradini.

Gli anni della guerra sono vissuti ad Arezzo fra due principali preoccupazioni delle classi dirigenti locali: mantenere alto lo “spirito pubblico”, talvolta anche con la retorica del patriottismo; arginare il malcontento popolare causato dalla crescente miseria e dai lutti. In questo senso l’impegno delle istituzioni è costante sia contro il disfattismo, sia per disciplinare gli approvvigionamenti ed i consumi di derrate alimentari, sia nelle iniziative a favore degli orfani e delle vedove. Alla regia procura di Arezzo per gli ultimi due anni di guerra vi sono in carico 37 procedimenti per disfattismo e 901 per violazione della legislazione eccezionale sul commercio con episodi di accaparramenti di generi alimentari e mercato nero. Altri aretini invece, al fronte, incapperanno nelle maglie dei tribunali di guerra. Viene anche costituito il Comitato di provvidenza civile del Comune con il compito di contrastare, attraverso la sensibilizzazione di parroci ed insegnanti, ogni propaganda antimilitarista. Le celebrazioni della Vittoria saranno poi ulteriore occasione per riaffermare i principi sociali e politici a cui si ispirano le locali classi dirigenti.

Nel 1919 c’è un vasto movimento di protesta sindacale contro il caroviveri che coinvolge tutta la provincia con scioperi, cortei, comizi e requisizioni non autorizzate di generi alimentari da parte di un appena costituito soviet. Ciò mentre l’ufficio Annona del Comune respinge la profferta di collaborazione e mediazione avanzata dalla Camera del lavoro. Il panorama politico cittadino, oltre ai socialisti, vede ora anche una forte presenza dei cattolici appena organizzati nel nuovo PPI, attivi promotori di leghe bianche in provincia e con un battagliero organo di propaganda diocesana: “La Vita del Popolo”. Siamo ormai alla fase saliente di ascesa dei partiti di massa. I liberali del sindaco Lelli ed i radicali, questi già alleati dei socialisti prima della guerra, si trovano in piena crisi, sulla strada dell’estinzione o quasi. Le elezioni politiche del 1919 confermeranno questa situazione con un risultato aretino di grande successo per i socialisti e per i popolari. Il quadro politico è davvero cambiato, e la sconfitta più cocente è proprio quella di Lelli che, in pratica, vede sconfessata la sua pluriennale gestione del municipio. Si apre di conseguenza anche una crisi amministrativa che sfocia ancora una volta nella nomina del commissario regio. Il sindaco uscente addebita l’insuccesso alla “inaspettata mancanza di accordo col gruppo cattolico”. Un ordine del giorno fermamente contrario al precedente indirizzo della alleanza clerico-moderata era stato infatti promosso dalla sezione aretina del PPI.

Le amministrative del 1920 si svolgono in un clima di gravi tensioni sociali e politiche per la concomitanza di agitazioni operaie a sfondo insurrezionale. Si formano ovunque blocchi liberali conservatori che impostano la campagna elettorale sul tema della difesa dell’ordine. Ad Arezzo si costituisce una Unione degli Italiani promossa dall’Associazione dei combattenti, con il programma: contrastare con ogni mezzo le forze sovversive. Gli operai metallurgici occupano, per l’impulso di FIOM e USI, il Fabbricone SACFEM; la bandiera rossa sventola sulla ciminiera di quell’insediamento simbolo di un industrialismo assistito voluto dai moderati e che dal 1907 ha cambiato faccia ad una città ancora a vocazione agricola. Al comune di Arezzo i socialisti vengono nuovamente sconfitti e l’insuccesso viene addebitato alla corrente astensionista del partito. Viene eletto sindaco il liberale “costituzionale” Carlo Nenci (1881-1956), in carica fino al 1923. Nel consiglio provinciale si registra invece una vittoria socialista con l’elezione a presidente di Luigi Bosi. Il PSI aretino si trova dunque a vivere la sua prima vera, effimera, esperienza di governo.

Nel 1921 si concentrano tre eventi di carattere insurrezionale / squadristico di enorme impatto sociale, politico e anche antropologico culturale per le comunità del Valdarno, della Valdichiana e del capoluogo. Tre eventi assurti subito a notorietà nazionale e che poi hanno lasciato segni evidenti nella memoria pubblica del Novecento, racchiusi in un arco temporale eccezionalmente breve. Fra il 23 marzo e il 17 aprile 1921, in meno di un mese, il conflitto raggiunge livelli parossistici di violenza.

Ad Arezzo squadre in camicia nera devastano la Camera del lavoro. La guerriglia di classe e le spietate spedizioni punitive per domare la tracotanza dei “rossi” lasciano una interminabile scia di sangue e di conti aperti, conti che saranno in parte saldati nella fase terminale del regime mussoliniano. Siamo ai prodromi della guerra civile di lunga durata.

Lo scenario - per un gioco del destino - si diversifica ogni volta, quasi ad indicare la valenza onnicomprensiva della battaglia in corso. L’insorgenza di Castelnuovo dei Sabbioni ha il suo epicentro nel luogo di lavoro più tribolato del Valdarno: le miniere di lignite. A San Giovanni, cittadina a vocazione siderurgica poco distante, un’intera giornata di guerriglia urbana con barricate e sparatorie dai tetti e dai chiassi coinvolge la popolazione. A Renzino, nelle vicinanze di Foiano della Chiana, un’imboscata organizzata e che vede la partecipazione attiva del mondo contadino, “accoglie” l’ennesima impresa squadristica. Il recupero del concetto di “guerra civile”, inteso come nesso imprescindibile fra il conflitto aperto nel 1919-1922 e la Resistenza, trova in questi accadimenti un evidente riscontro. Basti citare a mo’ di esempio il fatto che un importante comandante partigiano della Valdichiana assumerà il nome di battaglia di “Renzino”, che è anche la località dove avvenne l’imboscata. Basti ricordare come, in Valdarno, il responsabile principale del “tradimento” e delle pesantissime condanne inflitte ai partecipanti ai moti insurrezionali del marzo 1921 sia un ex-sovversivo che poi sarà passato per le armi dai partigiani durante la Resistenza. Ed ancora: se noi verifichiamo la composizione dei “gruppi di fuoco”, se noi compulsiamo gli elenchi nominativi dei partecipanti e di quelli giudiziariamente coinvolti negli episodi di guerriglia sociale (centinaia di persone)… ebbene, vi troveremo futuri membri della Costituente, futuri deputati e senatori della repubblica, sindaci e presidenti di provincia del secondo dopoguerra, segretari di Camere del lavoro, dirigenti sindacali di calibro nazionale, presidenti e membri di CLN, amministratori pubblici, promotori e punti di riferimento locali per l’associazionismo democratico, ecc. Insomma è proprio dal crogiolo sovversivo del ’21 che prende forma e identità quella classe dirigente, sia pure di opposizione, che entrerà nelle rinnovate istituzioni post-fasciste non più nel nome della Rivoluzione proletaria, ma della Costituzione repubblicana.

Un’altra importante conferma riguarda il nesso con la conflagrazione bellica. Decorati di guerra sono equamente distribuiti fra sovversivi e squadristi presenti sullo scenario aretino del ’21. Per i primi basti citare il segretario dell’Unione Anarchica Valdarnese nonché futuro membro del CLN locale Osvaldo Bianchi, oppure un gruppo omogeneo fra i protagonisti di Foiano della Chiana che provengono da una comune significativa esperienza militare nella Marina. “La violenza apocalittica” e “il culto mistico del combattimento” rappresentano in effetti i detonatori di un mutamento socioculturale e di orizzonti mentali davvero traumatico. Un segno indelebile e duraturo negli anni a venire e per tutto il secolo breve. Vi è una concatenazione senza soluzione di continuità fra lotte sindacali vincenti, squadrismo in camicia nera come reazione, insurrezioni armate antifasciste come risposte alla reazione. Nella provincia aretina succede a Castelnuovo dei Sabbioni e a San Giovanni, succede a Foiano. Così, se per i minatori del Valdarno guidati da Attilio Sassi si registra la conquista eccezionale della giornata di sei ore e mezza, nella Valdichiana rossa i contadini vincono la loro battaglia per il Patto colonico. E sono vittorie che non possono essere tollerate dalle controparti. E certo alla base di tutto questo c’è quella classe operaia “nuova” che ha raggiunto il suo apice di “capacità offensiva” nel quadriennio 1917-1920, che si è formata nel contesto conflittuale / collaborativo inaugurato dalla Mobilitazione Industriale.

 

NOTE

Estratto da: Politica e istituzioni ad Arezzo, dall'alto medioevo all'età contemporanea, atti del ciclo di conferenze. Arezzo, febbraio-novembre 2010, a cura di L. Berti, Arezzo, Società storica aretina, 2013, pp. 235-255.

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

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Giorgio Sacchetti