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magistri in arte cartarum

di Sergio MENDIKOVIC

Come per la nascita del francobollo ricorriamo al mito. Come per il francobollo, infatti, anche per la nascita della carta ci fu un incontro tra un uomo ed una donna.
La scoperta della carta viene riconosciuta al dignitario cinese Ts’ai Lun, nel 105 d.C. Si tramanda che egli vide che ad una lavandaia, nello sciacquare dei panni logori, strofinando e sbattendo, questi si sfilacciavano formando sul pelo dell’acqua un velo di fibre. Ts’ai Lun raccolse questo velo e lo pose ad asciugare sull'erba. Nacque così il primo foglio di carta bianca e morbida. Quel foglio poteva ricevere la scrittura.
Verso il VI secolo d.C. attraverso la Corea la scoperta giunse in Giappone ma per l’occidente si dovette attendere ancora visto il percorso più lungo attraverso le rotte commerciali (la via della seta) che la introdussero nel mondo arabo e quindi nel Mediterraneo. Il nuovo prodotto, nel volgere di poco tempo, sostituì il papiro.
La comunicazione, si è basata, fino ad ora, sul supporto cartaceo (ricordiamo che anche le mail si stampano per essere protocollate), che a sua volta si è avvalso del sistema postale ed infine, a suggellare il percorso, del nostro beneamato francobollo. Tutto quindi si basa sulla carta.

Le cronache legano l’introduzione della carta in Europa, XII e XIII secolo, alle vicende commerciali delle Repubbliche Marinare le quali ebbero fondachi sulle coste della Palestina ed in Siria. Luoghi ove erano situati i maggiori centri per la produzione di carta del mondo arabo. Forse i primi “Magistri in arte cartarum” nacquero proprio sulle rotte commerciali dell’oriente.
Resta la questione, tuttora aperta, sul primato in Italia: Amalfi o Fabriano? Essendo, però, Amalfi la più antica delle repubbliche marinare, che già nel IX secolo aveva propri fondachi in terra siciliana, in Palermo, Messina e Siracusa e di fatto legandosi alla cultura araba, per sano campanilismo, propendiamo per la tesi del primato amalfitano.
Le prime tracce, in costiera, della nuova arte si ritrovano negli scritti del XIII secolo in cui si parla di bambagina, carta da scrivere.
La materia utilizzata per la carta dopo le fibre vegetali furono i cenci di stoffa. Ovviamente ciascun cartaio aveva i suoi segreti. Anche altre figure sociali erano fruitori di carta: il letterato, lo scrittore, il copista ed il pubblico scrivano. Ciò a riprova che la metodologia per la produzione della carta era ben divulgata e nota. Spetta alle popolazioni italiche il merito di aver istaurato la prima produzione industriale, andando a meccanizzare le operazioni puramente manuali con i rudimentali mezzi. Il tutto a vantaggio della produzione e dei costi.
Ad Amalfi si sviluppò una vera e propria industria cartaria lungo la Valle dei Mulini tra i monti Lattari, zona tanto scenografica quanto impervia. Attraverso questa valle scorre il fiume Canneto che attraverso una serie di canali sotterranei che corrono parallelamente al corso naturale, forniva la forza motrice dei macchinari necessari alla produzione della carta. Ma questo motore naturale poteva divenire fonte di danno all’industria cartaria: gli eventi alluvionali portavano detriti nella lavorazione, di fatto rendendola impossibile, la siccità faceva si che la penuria d’acqua non fosse sufficiente “a battere tutte le pile” e quindi si rendesse necessaria una turnazione.
Occorre arrivare nel XVIII secolo per trovare nei catasti onciari elementi che evidenziavano l’esistenza di ben 11 cartiere in Amalfi della capacità di 83 pile (pila era la vasca di pietra in cui si pestavano i cenci per farne carta) e “spandituri” (locali areati atti all’essiccamento della carta). La materia principale ai quei tempi, per la produzione di carta, erano gli stracci. Questi erano raccolti in loco o nei tenimenti limitrofi oppure, come da cronache, si ha notizia di numerosi carichi provenienti dalla capitale del regno di “roba straccia”, “pezza bianca” ed altro. Tali materiali erano soggetti al pagamento di 5 grani a cantaro (il cantaro napoletano, sin dal 1480, era composto di 100 rotoli ed era equivalente a circa 89 chilogrammi) o di 5 tornesi se provenienti dalla capitale a titolo di “ius peso e mezzo peso” alla dogana baronale di Amalfi.
L’industria cartaria amalfitana, nonostante la fiorente attività, andò lentamente nei secoli seguenti in declino vuoi per vicissitudini politiche che per l’incalzare dell’industrializzazione. Un lento ed inesorabile declino al quale contribuì l’infelice, ma altamente sublime e suggestiva, ubicazione della Valle dei Mulini, tra i monti in una gola aspra e ristretta, di fatto priva di vie di comunicazione degne di tale nome. L’ultimo e tremendo colpo al tracollo dell’industria cartaria fu dato dalla catastrofica alluvione del Novembre 1954. Rimasero in attività solo tre opifici che, con spirito di sacrificio, tenace volontà e laboriosità, continuarono la produzione di generazione in generazione, da padre in figlio, conservando e tramandando le proprie tradizioni.
Andiamo ad illustrare brevemente il procedimento produttivo del foglio di carta a mano denominato o “bambgcina” o con altre forme "bombycina o bambacina” prima dell’avvento della meccanizzazione che andò a sostituire i macchinari artigianali, la Macchina Olandese. A tal proposito si ricorda una supplica che alcuni lavoratori amalfitani rivolsero a Sua Maestà per implorare un aiuto rispetto alla incombente meccanizzazione del settore cartario. Egli così rispose: “Le lacrime dei nostri figli, proprio della bassa gente…..giungono ormai a Noi….Le tante macchine che l’uomo usurpatore e perspicace ha saputo inventare e ne inventa tutto dì, sono quelle che tolgono pane dalla bocca dei nostri fedeli sudditi nell’intero Regno …”.

I cenci o stracci potevano essere di lino, di cotone di canapa, di iuta, ma esclusi quelli di origine animale e di seta, poiché le loro fibre mal si prestavano a far carta. La prima operazione che veniva svolta era la loro pulizia a cui seguiva la tagliatura a mano con la separazione da rattoppi, cuciture, orli, bottoni, parti che potevano danneggiare oltre che il prodotto anche le macchine.
Dalla prima fase si accedeva alla lisciviazione, in apposite vasche, con lo scopo di liberare gli stracci da ulteriori impurità. Poi si procedeva alla lavatura per liberarli dal liscivio e dalle altre impurità ancora presenti. Al lavaggio seguiva la sfilacciatura la cui funzione era di distruggere ogni traccia di tessuto, con l’accortezza che i filamenti non venissero tagliati, divenendo così una massa filamentosa detta sfilacciato o mezza pasta. Poi si passava alla tutta pasta che si otteneva grazie ad enormi magli in legno che battevano e trituravano gli stracci precedentemente raccolti in pile in pietra.
L’impasto ottenuto, diluito con acqua, era pronto per la lavorazione. La pasta veniva inserita nel Tino (vasca rivestita internamente di maioliche). Il mastro cartaro immergeva nel tino un telaio, il cui fondo era ed è formato da una rete metallica a maglie strette, la pasta raccolta veniva abilmente distribuita nella forma. Colata l’acqua restava un sottile strato di materiale.
Il foglio di carta veniva poi riposto sul pontone, un feltro di lana, ricoperto a sua volta da un altro feltro e così via creando una catasta di fogli. Fase seguente era la eliminazione dell’acqua residua tramite una pressa posta sopra la catasta di fogli. Ultima fase di lavorazione della carta consisteva nel portare la carta ad asciugare in appositi spanditoi.

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