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I servizi sanitari dell’Esercito Italiano
durante la Prima Guerra Mondiale

Sergio De Benedictis (Vastophil 2018)

Il Generale Luigi Cadorna Cartolina tratta da un dipinto di A. Zoppi

La Sanità militare, fin dall’inizio delle ostilità, si trovò improvvisamente davanti a nuove situazioni, che richiesero la immediata soluzione di gravissimi problemi e provocarono un inevitabile disorientamento nei laboriosi preparativi, cosa che del resto afflisse anche tutti gli altri Eserciti belligeranti.

Come ebbe a dire lo stesso maresciallo Cadorna ad inizio conflitto:

Fra i fattori che più efficacemente concorrono a mantenere integra la forza dei reparti e saldo il regime e la disciplina delle truppe, riveste importanza assai notevole lo scrupoloso, retto, sereno funzionamento del Servizio Sanitario.

Molti fattori concorsero a creare una situazione inattesa che richiese urgentemente nuove tecniche molto più perfezionate e complesse di quelle praticate in tempo di pace:

• la durata del conflitto superiore ad ogni previsione, caratterizzato da una guerra in trincea lunga e snervante
• il predominio dei mezzi meccanici sugli uomini
• l’imponente e progressivo aumento del numero dei combattenti
• il rapido perfezionamento dei mezzi di distruzione
• l’impiego di speciali mezzi di attacco: reparti di assalto, lanciafiamme, bombe a mano, carri armati
• l’introduzione di due nuove potenti armi di offesa: l’aereo e la chimica

Furono quindi compiuti sforzi incredibili per adattare il funzionamento dei vari servizi ai nuovi bisogni introducendo tutte le competenze tecniche e i progressi della scienza.

I quadri organici

Raffigurazione in latta di un sergente di Sanità

Appena indetta la mobilitazione fu subito chiara la carenza numerica nei quadri del Corpo Sanitario che mise subito a dura prova il regolare funzionamento nonostante l’abnegazione dei singoli.

L’ordine di chiamata alle armi del maggio 1915, pur essendo un provvedimento di larga portata, fu inadeguato per assicurare una assistenza sanitaria completa su di un fronte esteso per centinaia di chilometri, in gran parte zona alpina e tanto meno in territorio nazionale.

Questi i numeri: un piccolo nucleo di 874 medici militari in servizio attivo, dovette inquadrare, valorizzare e dirigere 16.884 ufficiali medici richiamati dal congedo o accorsi volontariamente.

Pertanto nell’aprile del 1916 vennero richiamati i medici delle classi 1870-1875 e successivamente i riformati delle classi 1874-1884, previa visita preliminare presso i Consigli di Leva.

Ma ancora poi a maggio si ricorse, assumendoli in servizio col grado di “aspirante ufficiale medico”, a studenti dell’ultimo biennio delle Facoltà di Medicina e Chirurgia del Regno, previo addestramento presso il campo di S. Giorgio di Nogaro; furono 366 quelli che poi furono mandati in prima linea, dove più continuo era il ricambio.

Nel novembre 1916 un decreto stabilì poi che non sarebbero più state concesse dispense ed esoneri per le classi 1884 e a seguire, con impiego delle stesse in zona di guerra ed esclusione da qualsiasi impiego in zona territoriale.

 

I servizi di sgombero

Fin dalle prime operazioni di guerra risultò necessario provvedere ad un raddoppio del numero di barelle, con conseguente aumento di medici assegnati e portantini (1), per il trasporto di feriti e malati dalle prime linee ai vari posti di medicazione, ospedali da campo e sezioni di sanità.

Ma lo sgombero procedeva con non poche difficoltà attraverso camminamenti stretti e tortuosi scavati nella roccia e con barelle che per la loro struttura ripiegabile in tre parti erano facilmente soggette a rottura delle cerniere. In mancanza d’altro furono improvvisate barelle fatte con semplici coperte, teli, cinghie e bastoni, adattandole inoltre, in presenza di neve, a slitte e sci.

“Avanscoperta (dall’altipiano carsico)” di Tommaso Cascella
Cartolina Postale Commemorativa della Croce Rossa Italiana


Si realizzò invece un efficace “trasporto a catena” in cui lungo il cammino, ogni gruppo di portaferiti, si muoveva sempre nello stesso spazio di 200 metri, imparando a conoscere le asperità del percorso e riuscendo ad operare anche di notte. Insoddisfacente se non controproducente si dimostrò invece l’utilizzo dei muletti, alquanto scomodo anche per gli stessi feriti.
Per la prima volta furono utilizzate teleferiche dotate di speciali carrelli chiusi, che risultarono alquanto vantaggiose sia per l’economia di personale sia per la rapidità e comodità del trasporto.

Le sezioni di Sanità, che da un primo numero di 50 passarono successivamente a 80 unità, erano provviste di carri per feriti a trazione animale, che non essendo mezzi né comodi né veloci, furono presto sostituiti da autoambulanze, 4 per ogni sezione. Potevano percorrere 14-20 km all’ora e trasportare fino a quattro feriti in barella, superando anche forti pendenze. Ma il numero era comunque esiguo se si pensa che nella sola III Armata, nel maggio 1917, si dovettero trasportare più di 56.000 feriti.

Le unità sanitarie in zona di guerra, attendate o ubicate in fabbricati requisiti, raggiunsero il numero di 500 ed erano provviste di moto lettighe, lavanderie mobili, lettini da campo, sterilizzatrici e autoclavi per le sale operatorie, lampade per disinfezione e apparecchi radiografici portatili.
Il trasporto di feriti e malati nelle retrovie venne effettuato in gran parte per via ferroviaria e limitatamente per via di acqua. Mentre non ebbe pratica applicazione, se pur già sperimentato nella guerra di Libia, lo sgombero per via aerea.

Solo il corpo della Croce Rossa trasportò sino alla fine del conflitto, sui treni da lei allestiti, quasi 900.000 uomini tra malati e feriti; su via fluviale utilizzò più barconi assemblati trainati da rimorchiatori, come la famosa ambulanza A. Litta. Per via di mare si fece ricorso a navi-ospedale quali la Palasciano, Albaro, Cordova e Italia; i rimpatri dall’Albania e dalla Macedonia prevedevano allo sbarco un periodo di contumacia in quanto più del 90% dei militari erano affetti da malaria, prima di essere avviati alle strutture ospedaliere.

 

I servizi chirurgici e specializzati

L’assistenza chirurgica fu all’inizio penalizzata dalla scarsa organizzazione già citata e non mancarono diversi casi di cancrena e altre gravissime infezioni. Ma ben presto furono raggiunti ottimi livelli rendendo i medici operativi sin sulle linee di fuoco in modo da limitare se non eliminare del tutto interventi di tipo demolitivo.
Vennero istituiti dei nuclei chirurgici, formati da provetti specialisti, che in molti casi venivano assegnati direttamente, con tutto il loro strumentario e personale necessario, alle unità belligeranti dove più urgente appariva l’opera di pronto soccorso.

1916 – Cartolina postale di origine privata predisposta per il 62° Ospedaletto da Campo della IV Armata. Risulta utilizzata in franchigia il 10 maggio 1916 con timbro della Posta Militare della 1ª Divisione.


Si resero disponibili al fronte 10 ambulanze chirurgiche (tre in seno alla Croce Rossa) allestite in modo da funzionare perfettamente come sale operatorie, avendo in organico sia medici chirurghi che personale infermieristico, dotate di apparecchiature radiologiche, gruppo elettrogeno e caldaia.

Al fine di ottenere, ove possibile, un efficace e repentino recupero postoperatorio, fu intensificato il servizio fisioterapico allestendo 11 centri dotati delle più moderne apparecchiature. I meno gravi, che non necessitavano di un ricovero, venivano inviati presso le caserme, dove giornalmente potevano svolgere un idoneo programma di ginnastica.
Una Commissione tecnica era incaricata di effettuare visite periodiche, in modo da verificare il decorso della cura e consigliare nuovi interventi terapeutici o nel caso di riconosciuti idonei, l’invio nuovamente al fronte.

Per i grandi invalidi, centri chirurgici di riferimento, a secondo della provenienza, erano quelli di Mantova e Bari, attrezzati anche per l’applicazione di eventuali protesi, costruite in loco.
Particolare attenzione si ebbe, nei reparti oftalmici, per coloro i quali avevano perso la vista: cinque case di rieducazione, sparse sul territorio nazionale, fornivano conforto materiale e morale e addestravano i pazienti a lavori manuali compatibili con la loro invalidità.


I servizi medici

Al fine di ridurre i periodi di ricovero furono allestite presso le Brigate e le Divisioni delle infermerie provvisorie per chi presentava affezioni di lieve entità e quindi un prevedibile ritorno in pochi giorni al servizio di prima linea. Gli altri affetti da malattie di più lunga durata, non superiore a due mesi, venivano indirizzati verso i cosiddetti “ospedali per malattie mediche” e successivamente in “depositi di convalescenza” allestiti sempre in zona di guerra, al fine poi di essere riassegnati come truppa di complemento.

Si pose particolare attenzione presso ogni armata alla creazione di un centro neuropsichiatrico per una assistenza di primo livello a soggetti neuropatici, psiconervosi, epilettici o semplicemente agitati se non simulatori, prima di inviarli ad un centro specializzato istituito presso l’ospedale di Reggio Emilia.

1916 – Cartolina viaggiata in franchigia il 6 marzo 1916 tramite l’Ufficio Posta Militare della 21^ Divisione Editore Romano Sacilotto di Pordenone


I servizi profilattici

La difesa contro le malattie infettive fu un’altra specializzazione che caratterizzò il Servizio Sanitario Militare e si basò su tre azioni:

• denuncia
• isolamento
• disinfezione

Per la disinfezione il personale era dotato sia di mezzi fisici che chimici con i quali operava al risanamento delle trincee, degli accampamenti e dei campi di battaglia. Dotati di un macchinario di potabilizzazione, potevano provvedere ad un approvvigionamento idrico delle truppe nonché a fornire l’uso di bagni e docce.
Si provvedeva anche al taglio dei capelli ed allo “spidocchiamento”, disinfestazione degli oggetti di vestiario e di equipaggiamento al fine di provvedere all’igiene ma soprattutto al contenimento dei costi, potendoli riutilizzare.
Non mancarono i laboratori batteriologici mentre il paziente seguiva un iter che lo portava da un ricovero in osservazione, ad una zona di isolamento all’interno di baraccamenti separati, per poi passare tra i convalescenti.

1916 – “Due sorelle inginocchiate mentre detergono le ferite al capo” di un soldato appena giunto dalla prima linea su di una barella”. L’immagine riproduce un’opera di Antonio Piatti. Sul retro i versi di Giosuè Carducci : “ … per l’aiuto fraterno a sofferenze fraterne”.

 

Ebbero larga diffusione campagne di vaccinazioni collettive sia per l’esercito che per la popolazione civile in zona di guerra, contro vaiolo, colera e febbre tifoidea.
Nelle zone litoranee dell’alto Adriatico, Albania e Macedonia si risvegliò l’infezione palustre della malaria; fu quindi deciso di trattare preventivamente i sani con il chinino e di inviare i soggetti infermi in opportuni sanatori localizzati in montagna; dove possibile fu effettuata anche una bonifica del territorio. Nonostante le precauzioni, nei territori di Albania e Macedonia si riscontrarono forme gravissime e si raggiunsero livelli di mortalità dell’80%.

Si rese necessaria anche una profilassi antitubercolare e antivenerea; quest’ultima patologia fu contrastata isolando i soggetti affetti, vigilando sulle condizioni igieniche delle case di tolleranza, vietando la prostituzione clandestina, organizzando conferenze e distribuendo opuscoli informativi.

Ci si trovò per la prima volta di fronte all’uso da parte del nemico di gas da combattimento; all’alba del 29 giugno del ‘16 dalle postazioni asburgiche si levò una grossa nube bianca che col favore del vento arrivò velocemente sopra le trincee italiane, sul monte San Michele. Era fosgene, un gas composto da cloro e ossido di carbonio. La rapidità dell’evento e l’inefficacia delle maschere in dotazione causò la morte di più di 8.000 uomini. Furono quindi adottati mezzi di protezione individuale per le truppe e per i quadrupedi fornendo in dotazione nuove maschere filtranti, vestiario, guanti e calzature impermeabili, nonché pomate protettive.

Non dimentichiamo che si combatteva principalmente sui monti, a discrete altezze, e i casi di congelamento erano molto frequenti. A tal fine furono distribuite calze e gambali di lana, pezza da piedi ingrassata, guanti, cappucci e pomate.

“Al forte … dopo Ala” di Tommaso Cascella
Cartolina Postale Commemorativa della Croce Rossa Italiana

 

Possiamo alla fine affermare che l’attività preventiva non fu né inutile, né inefficace e che la nostra Sanità Militare fu certamente all’altezza delle situazioni che si vennero a creare durante l’intero conflitto. Si cercò di tutelare, per quanto possibile, la salute del soldato attraverso una rigorosa applicazione delle norme igieniche per quanto riguarda alimentazione, vestiario, alloggiamenti, ma si cercò anche di realizzare una salda difesa contro le malattie infettive, raggiungendo l’obiettivo, in questo immane conflitto durato 42 mesi, di mantenere un buon livello di conservazione degli effettivi.


 

NOTE

1. Fu raddoppiata la dotazione di barelle che erano in numero di 24 per ogni reggimento, con un organico totale di 7 ufficiali medici e 48 portantini; ma l’aumento risultò comunque non adeguato potendo far fronte a non più di 290 trasporti nell’arco di 10 ore di lavoro.

Sergio De Benedictis
Vastophil 2018