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Castelfidardo: tappa decisiva dell'unità d'Italia

di Rosalba Pigini
gent. concessione da "la Voce del C.I.F.R." n. 91


C'è una collina, al confine sud-est del territorio di Castelfidardo che, pur non essendo molto alta, permette a chi vi si trova di sentirsi sospeso in un luogo infinito. A est ci sorprende la riviera del Conero con il suo mare cristallino, a sud ci consola la vista del Santuario di Loreto, a ovest Recanati e in lontananza, talora sfocato, talora tanto limpido da dare l'impressione di poterlo toccare, il profilo dei monti Sibillini. E ancora, a fare da corona, tra roverelle, ulivi, pini e piccole radure, Camerano, Porto Recanati, Osimo e l'abitato di Castelfidardo. Siamo al centro delle Marche, terra abitata dalla popolazione dei Piceni nell'età del ferro, terra dove fondarono alcune città i Dori, stirpe della Grecia antica e terra che fu la V Regio romana in epoca augustea, luogo ricco di storia e cultura.
Sulle cartine la collina è indicata come Monte Oro, ma per gli abitanti del luogo è semplicemente "la selva". Un gioiello naturalistico di circa 36 ettari di bosco, relitto delle antiche foreste preistoriche rimasto pressoché inalterato. Camminando sul sentiero che la taglia da nord a sud, circa a metà percorso, si incontra, a lato della strada, una quercia. Non una quercia qualsiasi ma una maestosa, grandissima, splendida quercia. Non si può non notarla. Il tronco imponente e plurisecolare ha un diametro ragguardevole; i rami, grandissimi, puntano verso il cielo e poi si allargano a ombrello a coprire una porzione enorme di terreno.

A circa 3 metri da terra, dove il tronco dà origine alle prime biforcazioni, uno dei rami principali, amputato chissà quando e chissà perché, sembra una cicatrice che rende asimmetrica la chioma maestosa. Quando le si passa accanto, la quercia sembra chiamarci. Appoggiare la mano alla corteccia è un'esperienza straordinaria. Nel silenzio irreale del luogo, il grande albero ci parla. Racconta di urla di soldati, di giovani vite spezzate, di speranze appagate e di altre disilluse

 

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La quercia


Ci parla della battaglia che ai suoi piedi si svolse un secolo e mezzo fa. Lei, giovane quercia, in questo angolo di paradiso, vedeva, senza comprendere, le truppe schierarsi. Da giorni il terreno rimbombava di passi e ferraglia. Laggiù nella pianura ai suoi piedi le divise nere e rosse del Corpo dei Volontari Pontifici si schieravano fra il vallato e la collina della Selva, guidati dal generale francese Christophe de la Moricière. A lui era stato affidato il comando dell'Armata dal Pontefice nell'aprile di quello stesso anno e il 20 maggio era stato l'artefice della costituzione del Corpo degli Zuavi, giovani di nobili famiglie accorsi da diverse nazioni europee all'appello del Papa. L'intenzione del Generale era di raggiungere Ancona per occuparla, ma il contemporaneo schieramento delle truppe piemontesi dall'altra parte della collina, tra le Crocette e il fiume Aspio, a sbarrargli la strada, tolse a De la Moricière la possibilità di passare senza impegnarsi in battaglia. Schierò i suoi uomini in 3 colonne e affidò il comando della colonna d'attacco a George de Pimodan. Questi aveva risposto alla chiamata del Papa nell'aprile 1860 per cercare di sedare i moti indipendentisti scoppiati ovunque in Italia, e si era distinto per avere messo in fuga un piccolo contingente di volontari garibaldini al comando di Zambianchi nel Lazio. Coraggioso fino al sacrificio, sapeva di avere un compito suicida ma lo affrontò con grande coraggio e determinazione.


Generale de Pimodan

Nell'altro schieramento, le giubbe azzurre dei Sardo-Piemontesi erano agli ordini del Generale Cialdini, al quale si deve il merito dell'organizzazione, in quel 1860, della calata nelle Marche del IV Corpo d'Armata che da Cattolica, con un'avanzata travolgente, punterà su Ancona per conquistare tutta la regione.
La sua ottima visione tattica e strategica delle operazioni gli fece decidere la tempestiva occupazione delle colline di San Rocchetto e delle Crocette, per chiudere la strada al nemico e impedirgli di conquistare la roccaforte di Ancona e asserragliarvisi. L'annessione delle Marche e dell'Umbria era necessaria allo Stato Piemontese per congiungersi con le terre del Regno delle Due Sicilie conquistate da Garibaldi. Ora Cialdini era lì a Castelfidardo alla guida di fanti e bersaglieri protesi all'ultimo assalto.


Generale Cialdini

La notte del 17 settembre 1860, scese, silenziosa, distendendosi sui due eserciti schierati e consapevoli dello scontro imminente. La giovane quercia osservava attonita e ascoltava i sussurri e i bisbigli levarsi dai due lati della sua collina, preghiere silenziose e parole dolci a ricordare mogli, giovani figli e genitori in un saluto che la mente sapeva poter essere l'ultimo. Poi, alle prime luci del giorno, improvviso, l'ordine di attacco si levò dal campo dei papalini. E il silenzio lasciò il posto alle cannonate. I passi dei fanti si fecero sempre più rapidi e quelli dei cavalli frenetici. E fu un inferno di fuoco, di grida, di richiami. Si cominciò a combattere e morire.


Battaglia di Castelfidardo: tempera di Carlo Bossoli
Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino

Avanzate, arretramenti, soldati feriti soccorsi dai compagni, corpo a corpo per conquistare uno spicchio di terra in più, su, verso la cascina Sciava sulla sommità della collina. Fuoco, spari, paura, coraggio, timori, speranze e dolore. Sotto la quercia, il generale de Pimodan, ferito, continuava a esortare i suoi al combattimento, guidandoli. Poi, colpito per la terza volta, cadde ferito a morte. Fu fatto prigioniero, trasportato alla Cascina per essere curato e onorato anche dai nemici. Ai bersaglieri vengono a dare manforte i due battaglioni di fanteria del generale Cialdini e la battaglia giunge al culmine: assalti alla baionetta, mischie accanite; molti restano sul campo. Le forze preponderanti dei piemontesi hanno la meglio: alle 14 la battaglia è conclusa. La vittoria degli Italiani a Castelfidardo è un passo decisivo per l'Unità d'Italia. Castelfidardo faceva parte dello Stato Pontificio fino alla data della battaglia e i bolli dello Stato Pontificio venivano usati per affrancare la corrispondenza in partenza, come in questa lettera da Macerata a Verona del 2/4/1860 affrancata con 8 baj. A causa dell'interruzione dei collegamenti postali tra gli Stati Sardi e l'Austria conseguente alla guerra del 1859, venne inoltrata via Milano-Coira (Svizzera)- Feldkirch (Austria) –e giunse a Verona il 13/4/1860 come documentato dai bolli di transito e di arrivo a tergo.

 

Con la vittoria delle truppe piemontesi sulle truppe pontificie del 18 settembre 1860, Castelfidardo, con le Marche e l'Umbria, passò sotto lo Stato Piemontese. I francobolli pontifici cessarono di avere validità nelle Marche il 30 settembre 1860. Dal 1° ottobre furono introdotti i francobolli sardi. Le tariffe postali sarde invece furono adottate solo dal 16 ottobre. In quei 16 giorni quindi per affrancare la corrispondenza si dovevano convertire le tariffe postati dalla valuta pontificia a quella sarda e questa lettera ne dà testimonianza. Spedita da Macerata per Roma venne affrancata con quattro diversi francobolli di Sardegna per un porto di 75 c., esatta conversione in centesimi della tariffa pontificia di 15 baj. La lettera, però, venne tassata in arrivo per l'intero importo perché l'amministrazione pontificia non riconosceva i francobolli sardi.
 


(collezione Balossini)

Come detto fino al 15 ottobre l'affrancatura veniva fatta convertendo le tariffe pontificie in quelle sarde e così avvenne anche per questa lettera spedita proprio il 15 ottobre 1860, quindi ultima data di validità ufficiale delle tariffe pontificie, da Pesaro per Recanati, affrancata con 15 centesimi corrispondenti alla tariffa pontificia di 3 bajocchi prevista per le lettere scambiate tra località di due direzioni postali non contigue.

 
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