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La pizzica:
superstizione, tradizione e innovazione

 

Il Cinema di Alberto Caminiti

 

Filatelia Tematica

di Alessandro Blasi e Sergio De Benedictis

La pizzica è un modello di pura tarantella, usata dalle popolazioni salentine come antidoto per lenire gli effetti generati, secondo superate credenze popolari, dal morso della tarantola.

La puntura è detta “pizzica” in dialetto tarantino e dà nome al ballo che eseguono gli sventurati morsi dalla tarantola. Questa è un grosso ragno di color giallino e grigio, con la parte inferiore dell’addome ornata da un disegno dalla forma di una foglia e con la parte superiore colorata in rosso arancione attraversata da una striscia nera.

Per guarire dal suo morso si utilizza una musica frenetica: è la pizzica. Questa, a differenza della tarantella, si balla sia da soli che in gruppo, anche se le varianti di pizzica scherma o danza delle spade sono per lo più improvvisate e necessariamente a coppie. Esaminando le origini storiche di tale superstizione si scopre che Platone in una sua opera, (l’Eutidemo) fa riferimento ad una cura musicale contro morsi di serpi e scorpioni anche con l’ausilio di formule cantate per sconfiggere il veleno di questi animali e, in termini più generici, descrive il ricorso a pratiche musicali di tipo terapeutico.

Oltre che nell’universo del mito, anche in seno ai riti dell’antica Grecia si ritrovano gli elementi di una crisi incontrollata a seguito di una puntura dell’insetto, che genera tremori, angosce, esplosioni di furore e che investe in modo particolare il mondo femminile. Queste crisi trovavano una soluzione rituale nelle pratiche orgiastiche dei culti dionisiaci ed in quelle varie forme di erotismo che andavano sotto il nome di menadismo.

È attestata la presenza di un gruppo di pratiche del genere in una vasta area che comprende i paesi islamici dell’Africa mediterranea, che si estende anche nella penisola arabica, nel Sudan e in Abissinia e che si identifica nel periodo storico compreso fra l’espansione dell’Islam nel Mediterraneo e la controffensiva dell’Occidente, fino all’epoca delle crociate in cui il tarantismo nacque e si diffuse in Puglia.

Il fenomeno del tarantismo oggi è quasi completamente in estinzione, ma non molto tempo fa ogni anno dal 29 al 30 giugno nella cappella di S. Paolo in Galatina convenivano i tarantolati della regione, per lo più contadine, che erano state punte dalla tarantola durante i lavori nei campi: si chiudevano alle prime luci dell’alba nella chiesa oggi sconsacrata e chiedevano la grazia per guarire dagli effetti del morso al loro santo protettore. Ad un tratto, una porticina laterale della chiesa si apriva, e, poco alla volta, uscivano le tarantate che danzavano, urlavano, si dimenavano e singhiozzavano mentre intorno la folla si accalcava per vederle.

Raccoglievano le monete che la gente porgeva loro, poi tornavano in chiesa, chiudendosi dietro la porta. Ne uscivano dopo alcune ore perfettamente guarite. Il rito era ripetuto l’anno successivo. Il veleno della tarantola, dal momento in cui si insediava, tramite puntura, nel corpo della vittima, ne controllava e ne “possedeva” l’esistenza su tutti i piani dell’agire. La malattia veniva personificata e le si assegnava un nome di riconoscimento (Peppina, Maria, ecc.): aveva caratteristiche precise, indicative ai fini della terapia da seguire: poteva essere “canterina” o “ballerina”, per cui il tarantato doveva ricorrere alla terapia musicale adeguata per placarla e ridurla all’impotenza. Poteva, all’opposto essere “muta” quando le crisi della vittima trovavano sbocco in uno stato di abulia, di angoscia sorda e di malinconia.

La fiducia in questa terapia era priva di riserve. Al primo sospetto che i malesseri di un individuo fossero originati dal “fatal morso”, accorrevano nella sua casa suonatori specializzati ed intraprendevano un’esplorazione di tipo musicale, dopo la quale si formulava la diagnosi e si iniziava la cura costituita dall’ascolto di brani musicali. Durante l’esecuzione il paziente entrava in uno stato di “possessione” e cominciava a danzare; i musicisti (di regola un violinista, un organettista, un suonatore di chitarra ed uno di tamburello) offrivano i “suoni” in proporzione alle sue richieste, visto che la tarantola che lo possedeva poteva prediligere ora l’uno ora l’altro strumento..

Assieme alla terapia musicale, c’era quella cromatica. Nella stanza adibita al rito venivano disposte fasce o nastri di vario colore, la cui contemplazione suscitava nella vittima un particolare stato di “affascinazione” con valore curativo, soprattutto se uno di questi colori veniva identificato come quello prescelto dalla tarantola.

In tempi meno recenti, lo scenario del rito veniva a completarsi con la presenza simbolica di fronde d’alberi e di un tino colmo d’acqua, visto che a questi due elementi si attribuiva efficacia magica nel promuovere nel soggetto posseduto uno stato di quiete temporanea.

Infine, in un altarino improvvisato alle pareti della stanza, signoreggiava l’effige di S. Paolo, da cui dipendeva l’esito positivo della cura. Egli avrebbe, infatti, comunicato a viva voce al tarantato che la crisi poteva aver termine, perché la grazia veniva concessa.

La teoria che la tarantola producesse disturbi nervosi, però, è stata dimostrata del tutto infondata dalla scienza, perché il morso della tarantola può produrre solo una piccola enfiagione ed un po’ di prurito doloroso, che scompare ben presto. Gli studiosi a seguito di attente osservazioni già inaugurate dal padre gesuita Kircher nel 1673 e approfondite dalla pionieristica équipe dello psichiatra ed etnologo Ernesto De Martino, coadiuvato da uno psicologo, un sociologo ed un etnomusicologo nel giugno del ’59, spiegarono il tarantismo in altro modo: esso sarebbe originato da malattie neuropsichiche, quali l’isterismo, l’epilessia, la schizofrenia e la malinconia depressiva.

Il fatto che le donne non maritate erano le più comunemente colpite fa ritenere che la causa più comune del tarantismo sia l’isterismo, che è, appunto, frequente nelle donne nubili. Alle predette malattie si aggiungeva il persistere (naturalmente a livello inconscio) di un’antichissima suggestione collettiva delle genti del Salento: la paura di essere morse (in maggio-giugno), durante la mietitura, dalla tarantola.

Le popolazioni del Salento meridionale, zona soleggiata, arida e rocciosa con molti terreni incolti o rudimentalmente coltivati, era habitat ideale per le tarantole. al tempo del raccolto anche dell’orzo, che erano le basi dell’alimentazione del popolo. Come si nota, la labilità psicologica di individui vessati dalla miseria dà alla magia funzione protettiva di soccorso psicologico e culturale rispetto ai disagi esistenziali, specie quando affonda le sue radici nella’arretratezza economica, e nella carenza di strutture sociali.

E qui va riportato un particolare finora trascurato, inerente il tarantismo, vale a dire il suo nesso simbolico con la vita erotica: la tarantola morde spesso la vittima nella regione genitale e, fra le conseguenze dello stato patologico prodotto dal veleno, viene annoverata una forte eccitazione sessuale da parte del malato; la stessa figura di S. Paolo viene integrata nel motivo erotico, come si può notare nei versi cantati in occasione della terapia musicale

(O Santu Paulu meu delle tarante/che pizzichi le caruse tutte quante/O Santu Paulu meu delle tarante/che pizzichi le caruse ‘nmezz’all’anche e le fai sante./O Santu Paulu meu de li scorpioni/che pizzichi li carusi int’a i balloni).

Per quanti volessero approfondire questo fenomeno in una luce diversa, vale a dire attraverso la voce diretta di “protagonisti”, che ci informano di tutte le implicazioni drammatiche e personali relative all’adesione magico-religiosa al tarantismo, si consiglia la lettura di due testi, uno curato da Annabella Rossi, dal titolo “Lettere da una tarantata raccolta di corrispondenza con una contadina pugliese dal 1959 al 1965”, e l’altro da Luigi Stifani “Io al Santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate”, ed. Aramirè, Lequile (LE), 2000 con CD annesso della diretta testimonianza di un violinista terapeuta.

Cosa ne è oggi della pizzica? Musicalmente si è, secondo alcuni, evoluta contaminandosi con altre esperienze, o con esecuzioni a ritmo di pizzica di serenate o ballate salentine (Lu rusciu te lu mare, Kali Nifta). Evoluzione (o involuzione) discutibile è stata tentata negli anni dal Canzoniere del Lazio, Napoli Centrale, Toni Esposito, Tullio De Piscopo, 99 Posse, Pitura Freska e Osanna (folk jazz e folk rock); operazioni passate nel dimenticatoio come tanti direttori artistici e tanti “arrangiamenti” dell’annuale Festival della Taranta di Melpignano.

Pensiamo che dove l’innovazione non tenga conto della memoria storica di un popolo si genera un prodotto ibrido e poco armonico. Ove invece è il naturale proseguimento della tradizione è giusto parlare di innovazione. Su questo argomento comunque ci ritorneremo. In compenso c’è un negramaro del Salento nomato “Pizzica”, pubblicizzato poiché fa danzare meglio…..

Bibliografia

Platone, “L’Eutidemo”;
Ernesto De Martino, “La terra del rimorso” Il Saggiatore, Milano 1961;
Annabella Rossi, “Lettere da una tarantata, raccolta di corrispondenza con una contadina pugliese dal 1959 al 1965” ed. Aramirè, Lequile (LE);
Stifani Luigi, Io al Santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate, ed. Aramirè, Lequile (LE), 2000 con CD.

Discografia

Antidotum tarantulae
Santu Paulu mia
Pizzica tarantina
Ballati tutti quanti.
Kalì nifta

Alessandro Blasi e Sergio De Benedictis
17-05-2023

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