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Lo sport vince contro ogni dittatura e tutte le guerre

 

Il Cinema di Alberto Caminiti

 

Filatelia Tematica

di Alessandro Blasi e Sergio De Benedictis

È questo un racconto che intreccia sofferenze ed orrori causati dalle guerre, gestite da dittatori folli contro i principi di uguaglianza …… e sportività insiti nelle competizioni.

Il 27 gennaio del 1945 i pochi superstiti del campo di concentramento di Auschwitz vengono liberati dalle truppe sovietiche. Per loro, al di là di quel cancello con su scritto “Il lavoro rende liberi”, si spalanca la libertà.

L’orrore del genocidio nazista che si è abbattuto contro vittime innocenti, viene descritto dalle testimonianze dei sopravvissuti: è la “Shoah” una parola ebraica che significa catastrofe; questo delitto di massa continua ad essere un ingiustificato eccidio nella storia dell’umanità.

 

Partiamo con un viaggio nel tempo nell’eterno conflitto storico tra dittatura e guerra contro lo sport. Le Olimpiadi nella Grecia antica avevano il potere di bloccare i conflitti anche tra le acerrime nemiche Sparta e Atene.


Sin da allora in molti hanno guardato allo sport come un veicolo per migliorare il mondo e diffondere principi come tolleranza e integrazione. Ma non sempre le cose sono andate così: l’imperatore Nerone riuscì a far rinviare di due anni la 211° edizione dei giochi, che avrebbero dovuto svolgersi nel 65 d.C. Il despota romano li fece denominare "Neronia", e si fece costruire a Roma una sorta di palestra, abbattendo un padiglione riservato ai giudici: una specie di villaggio olimpico ad personam.


E’ inutile dire che nel 67 d.C. spopolò aggiudicandosi sei allori olimpici: quadriga, quadriga dei puledri, tiro a dieci dei puledri, araldi, tragedi (compositori delle tragedie) e citaredi (suonatori della cetra). Tre gare furono create su misura per lui e pare che durante una delle corse di cavalli, caduto dal cocchio, fosse atteso da tutti i suoi avversari, divisi fra il fair play e qualche preoccupazione in caso di un'eventuale sconfitta del loro potente avversario. Alla sua morte, giustizia fu fatta, perchè gli Elei si rifiutarono di annoverare le Olimpiadi del 67 d.C. nelle liste ufficiali.

Saltando alle quarte Olimpiadi moderne, il 24 luglio 1908 si corse a Londra la maratona, che aveva preso il nome dalla località della battaglia, famosa anche per l’impresa di Filippide che, secondo Luciano di Samosata, avrebbe corso ininterrottamente da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria e, giuntovi, sarebbe morto per lo sforzo.


Il racconto di tale impresa è resistito nei secoli fino a ispirare l'ideazione della gara maratona in cui l’italiano Dorando Pietri arrivò al traguardo di Londra per primo, ma non vinse. Pietri, infatti, esausto impiegò circa 10 minuti a percorrere gli ultimi 500 metri, e pochissimo prima del traguardo i giudici lo aiutarono a stare in piedi e avanzare. In quel momento fu scattata una foto che è ancora oggi famosissima.

Fu quindi squalificato e la medaglia d’oro andò allo statunitense John Hayes. Di quest’ultimo, oggi non si ricorda più nessuno; anche dopo 120 anni, invece, Pietri continua a essere conosciuto e celebrato come il simbolo di quelli che non vincono, ma che ci provano fino alla fine.
Tantissime sono le storie individuali di uomini e donne, che grazie all’impegno agonistico hanno vinto vere e proprie battaglie. Tante le dittature e i totalitarismi che se ne servirono.

Negli anni del ventennio fascista il regime si appropria della ginnastica e dello sport facendone uno strumento di propaganda politica, veicolo per quel "consenso di massa" sopra il quale fondare il suo potere. Con la riforma del 1923 di Giovanni Gentile (filosofo di chiara fama e Ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924) la preparazione fisica dei giovani viene affidata prima all’Opera Nazionale Balilla e poi alla G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio).

La ginnastica e lo sport godono in quegli anni di un’importanza ed un prestigio mai avuti prima, e gli italiani in molti sport (quali il calcio, la ginnastica, l’atletica, la scherma, il canottaggio, l’equitazione) primeggiano a livello mondiale.
L’educazione fisica diviene fondamentale nella Scuola; ovunque si costruiscono palestre ed impianti sportivi. L'educazione paramilitare costituiva una parte fondamentale della pedagogia fascista. I bambini venivano automaticamente, volenti o nolenti, iscritti a 4 anni ai "Figli della Lupa", da 8 a 14 anni ai "Balilla", dai 14 ai 18 agli "Avanguardisti", oltre i 18 anni alla "Gioventù Fascista". Parallelamente le formazioni femminili erano le “Piccole italiane” e le “Giovani italiane”.

Le attività ginniche e sportive erano militarizzate e, lungi dall’essere formative, trasmettevano "valori" imposti dal regime e cioè spirito nazionalista, audacia, addestramento paramilitare e " .... Elevazione morale, fiducia in sé, alto senso della disciplina e del dovere"
(dalla Carta della Scuola del 1937).

Ognuno aveva una divisa, partecipava alle adunate; il sabato pomeriggio sottratto al lavoro e chiamato «fascista» rappresentava lo spazio per le manifestazioni di partito. Nei reparti maschili già i balilla disponevano di un moschetto, riproduzione in scala ridotta del famoso fucile modello '91 dei fanti italiani nella prima guerra mondiale, per l'addestramento militare.
Ovunque si preparavano e si organizzavano manifestazioni, saggi ginnici e parate che venivano chiamate "adunate", nelle quali si esibivano i livelli di preparazione fisica raggiunti.

Divise, marce, esercitazioni, disciplina erano gli strumenti per la formazione “dell'italiano nuovo'' voluto da Mussolini.
I giovani maschi italiani, in questo periodo, venivano preparati ad affrontare prove di coraggio, di resistenza alla fatica (per forgiare il carattere) e di lotta. Soprattutto viene inculcato loro il senso della disciplina e dell’obbedienza ("credere, obbedire, combattere”).

Con la Legge del 31 dicembre 1934 si introducevano la pratica e la cultura militare nella scuola realizzando pienamente la formula "Libro e moschetto fascista perfetto".

Le giovani ragazze invece vengono preparate a diventare mogli e madri prolifiche. Il fine del matrimonio è la procreazione (dovevano far nascere il maggior numero di figli, possibilmente maschi, per incrementare numericamente le file dell’esercito italiano). Per questo per le ragazze vengono previste esercitazioni atte a migliorare l’armonia dei movimenti e la flessuosità. Dovevano essere anche attraenti e desiderabili per potersi sposare presto e diventare così mogli sane, robuste e prolifiche: manifesto di ciò è l’olimpionica Ondina Valla.

La stampa fu sottoposta via via a un crescente controllo e subì un processo di progressiva fascistizzazione: “In un regime totalitario - dirà Mussolini in un discorso del 1928, - la stampa è un elemento di questo regime, una forza al suo servizio ..” Ecco perché “tutta la stampa italiana deve essere fascista e deve sentirsi fiera di militare compatta sotto le insegne del Littorio”.
Tuttavia per Galeazzo Ciano, Ministro per la Propaganda, il controllo della stampa non è sufficiente al regime in un paese come l'Italia in cui i giornali sono poco diffusi e non raggiungono le grandi masse popolari, per l’elevato grado di analfabetismo.

Nel maggio 1933 Iosef Goebbels, l’ideologo della propaganda nazista responsabile del Ministero «per la propaganda e la spiegazione al popolo», viene in Italia e visita l‟Ufficio Stampa. Nel maggio 1937 il ministero assume la nuova denominazione di Ministero per la Cultura Popolare (detto il Minculpop): e con il termine "popolare" si vuole sottolineare appunto una attenzione ed un impegno non riservati agli intellettuali, ma rivolti alle masse culturali. Radio, cinema e arte diventano gli strumenti di questa rivoluzione.

Le opere del regime sono esaltate e propagandate con ossessiva insistenza dai notiziari dell'Istituto Luce: nuove strade, interventi urbanistici, bonifica di terre malsane, nuovi stadi: Roma, Bologna, Firenze, Bari, Como, Livorno, Palermo, Bergamo, Alessandria, Trieste. (alcuni ancora attivi).


Gli italiani, essendo un popolo di tifosi, sono un buon humus per costruire il volto nuovo della nazione e dell'identità nazionale. Ma anche la scienza, la letteratura, la musica, l'architettura, entrarono a far parte di quel meccanismo attraverso cui il regime tentò di assicurarsi il consenso delle masse.

Il calcio, oltre che essere un'attività ricreativa e sana, rappresentava per il fascismo un'occasione per mobilitare milioni di persone, per veicolare e convogliare le passioni di generazioni, organizzandole ed educandole ai valori predicati dalla gerarchia. Così i calciatori erano scelti e selezionati proprio perché rappresentavano nel migliore dei modi l'ideale di "uomo nuovo" che il fascismo andava predicando in quegli anni: l'atleta sul campo era metafora del soldato in battaglia.

I calciatori diventavano esemplari per due ordini di motivi: la prestanza del loro aspetto fisico e perché funzionali a un gruppo, alla squadra. I meriti del calcio non si fermavano qui: esso contribuiva a rafforzare il senso di identità e di Patria. Il culmine di questa politica del consenso furono i campionati e, soprattutto, i Mondiali e le Olimpiadi.

Nel 1928 le Olimpiadi vengono organizzate ad Amsterdam. Agli atleti italiani viene imposto dal regime l‟utilizzo del “saluto romano” e la propaganda fascista mostra le immagini degli atleti italiani sul podio con il braccio alzato. Queste Olimpiadi furono un primo banco di prova dei progressi che lo sport italiano aveva raggiunto in pochi anni.
Nel 1932 i Giochi Olimpici si svolgono a Los Angeles. L’eco dei mass media è clamorosa. E’ l’Olimpiade delle immagini trasmesse come non mai attraverso i giornali e nei cinema e furono per l’Italia anni in cui gli atleti furono considerati patrimonio della nazione, ambasciatori d'Italia nel mondo. Si conclusero con un palmares per l'Italia di tutto rispetto, posizionandola al secondo posto nel medagliere internazionale.


I Mondiali di calcio del 1934, svoltisi in Italia, furono poi l'ulteriore occasione non solo per mostrare al mondo i progressi e la potenza del calcio italiano, ma anche per esibire la gamma intera delle capacità del regime di organizzando alla perfezione la competizione. L'apice di questa macchina organizzativa fu la festa per la vittoria nella finale giocata allo Stadio Olimpico davanti a cinquantamila spettatori, preparati a cantare inni fascisti, con lo sventolio di fazzoletti sui quali era stampato il nome del Duce.

 

Intanto nel ciclismo Learco Guerra, soprannominato “la locomotiva umana "per le sue formidabili doti di passista, fu suo malgrado portato a simbolo del superuomo nel ventennio fascista e dovette donare molti dei suoi trofei "alla patria". Vinse 5 Campionati Italiani su strada consecutivamente dal 1930 al 1934, il Campionato del mondo di ciclismo nel 1931, la Milano-Sanremo nel 1933 e il Giro d'Italia nel 1934. Giunse due volte secondo al Tour de France ed anche in altri due Campionati del Mondo.

 

Nello stesso periodo Primo Carnera si distingueva nel pugilato. Era un colosso alto più di due metri che pesava 120 chili e come tale capace di sprigionare una forza che nessuno dei suoi avversari poté mai eguagliare.
Il 26 giugno 1933 Primo Carnera mise al tappeto Jack Sharkey in sei riprese e diventò campione del mondo dei pesi massimi. La sua prima dichiarazione ad un giornalista del "Corriere della Sera" fu: "Offro questa vittoria al mondo sportivo italiano, giubilante e orgoglioso di aver mantenuto la promessa fatta al duce".

È un momento d'oro per il discusso pugile italiano, poi finito in miseria per truffe e investimenti errati.

Anche gli ideologi del Terzo Reich compresero che la ginnastica e lo sport potevano diventare un formidabile mezzo di propaganda atto a dimostrare la superiorità della razza ariana rispetto alle altre.
Le Olimpiadi di Berlino del 1936 diventarono così un palcoscenico ideale per mostrare la superiorità degli atleti tedeschi agli occhi del mondo. La manifestazione sportiva aveva finito con l’assumere una notevole importanza, dal punto di vista propagandistico, sul piano politico. In effetti
gli atleti tedeschi riuscirono a conquistare moltissime medaglie. Ma un atleta americano di colore, Jesse Owens, soprannominato “lampo d’ebano”, vinse 4 medaglie d’oro nei 100 metri (record mondiale: 10”,3), nei 200 metri (record olimpico: 20”,7), nel salto in lungo (record olimpico: 806 cm) e nella staffetta 4 x 100 (record mondiale: 39,”8).


Queste vittorie frantumarono le aspettative di Hitler, per il quale i Giochi Olimpici, preceduti da una propaganda battente e preparativi grandiosi mai visti prima, dovevano rappresentare l’esaltazione della razza ariana e della grandezza tedesca. Il disappunto e l’imbarazzo del Fuhrer furono così evidenti che, modificando il previsto protocollo, preferì allontanarsi dall’ Olympiastadion prima delle premiazioni per non dover stringere la mano ad un atleta di colore.

 

Nel 1938 a Parigi, Vittorio Pozzo, ct della nazionale di calcio, alza al cielo la seconda coppa Rimet. Attorno a lui la squadra che ha vinto per 4-2 la finale contro l'Ungheria.


Anche i regimi socialisti nel dopoguerra non hanno certo sottovalutato l’importanza dello sport ai fini propagandistici. Nel periodo della "guerra fredda" che vedeva la contrapposizione dei due grandi blocchi (quello occidentale europeo-americano da un lato e quello dei Paesi dell’Est dall’altro) le competizioni sportive internazionali, come le Olimpiadi, diventarono occasioni di confronto ideologico e politico. La supremazia sportiva poteva infatti essere sfruttata ai fini propagandistici per dimostrare
la superiorità di una ideologia politica rispetto ad un’altra.

Fino alla caduta del muro di Berlino, nei Paesi dell’Est, agli atleti furono somministrate sostanze dopanti per ottenere il miglioramento della prestazione sportiva ed il miglior risultato possibile, a qualsiasi costo, anche a scapito della salute degli stessi.

La vittoria sportiva diventava elemento da “spendersi” per testimoniare la validità di un modello politico sull’altro. Est statalista, socialista e comunista contro ovest capitalista e liberista.

Nella D.D.R. era lo Stato che organizzava il doping degli atleti somministrando loro ogni genere di prodotto che potesse incrementare in qualsiasi modo la prestazione sportiva. Famose le “pillole blu”, anabolizzanti potentissimi che negli anni provocarono danni fisici irreversibili.

 

 

Le dittature ed i regimi totalitari hanno sempre sfruttato l’attività fisica e lo sport sia ai fini della preparazione paramilitare e militare sia a fini propagandistici ideologico-politici(si pensi alla giovanissima ginnasta rumena Nadia Comaneci).




In qualche modo lo sport attiva su di sé il meglio e il peggio di questo scontro culturale. Gli orrori proseguono a Monaco di Baviera durante le Olimpiadi del 1972, quando muoiono undici atleti israeliani sotto i colpi di terroristi arabi.


 

 

Quattro anni prima alle Olimpiadi del 1968 Tommie Smith e John Carlos avevano sul podio fatto il saluto delle Pantere nere a favore dell’integrazione degli afroamericani con un vigore e un’importanza paragonabile a quella delle predicazioni di Martin Luther King e Malcolm X.

 

 

 

Ai nostri giorni Lewis Hamilton è il più forte corridore di formula 1 e Tiger Wood rappresenta la figura più elitaria della scena statunitense del gioco più nobile, il golf. Anche in altri Paesi ci sono esempi luminosi. In Sudafrica il tramonto dell’apartheid passa anche dallo sport: se un tempo il calcio era riservato ai neri e il rugby ai bianchi, ora le rispettive nazionali dagli Springboks sono “miste” e vedono tra le loro file atleti bianchi e neri. La Coppa d’Africa, vinta nell’edizione sudafricana davanti al tifoso speciale Nelson Mandela, è stata una festa popolare indimenticabile di riconciliazione nazionale.

 

Un campione del basket NBA come Michael Jordan è un totem dell’unità nazionale americana, e il suo ritorno sui campi di gioco è stato vissuto come uno dei primi momenti di rinascita dopo la tragedia delle Torri gemelle.

 

Altra importante pagina è stata scritta alle Olimpiadi di Sydney da Cathy Freeman, l’atleta australiana di origine aborigena. Il suo oro olimpico sui 400 metri ha premiato il suo orgoglio e quello di un’intera popolazione.

 

Lo sport sano, quindi, è stato sempre dalla parte giusta; è vero, c’è il fenomeno degli ultrà dove gruppi xenofobi sono sempre più protagonisti di episodi deprecabili: esposizione di svastiche e croci celtiche, cori beceri, saluti nazisti e “buuuuh” di scherno all’indirizzo dei giocatori di colore avversari. Questi presunti “tifosi” non si sognerebbero di fischiare giocatori extracomunitari della propria squadra. Lo si fa, accecati dal tifo e incapaci di riconoscere i veri valori dello sport. “The dark side”, ossia l’altra oscura faccia di questo pianeta, mette paura: proprio qui in Europa, e non solo, lo sport sembra essere uno dei palcoscenici preferiti da violenti e razzisti. Anche una semplice partita di calcio rischia di trasformarsi in un episodio di guerriglia urbana. Gli sportivi sono altra cosa!

Anche la squadra nazionale di tennis nel 1976, composta da Nicola Pietrangeli (capitano-non giocatore), Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti e Antonio Zugarelli (la meglio gioventù della racchetta) fu coinvolta da un regime dittatoriale. La storica vittoria della Coppa Davis fu il massimo successo della miglior epoca del tennis maschile nazionale. All’epoca il Cile era governato da tre anni dalla più famigerata dittatura sudamericana del Novecento, che l’11 settembre del 1973 aveva deposto il presidente democraticamente eletto Salvador Allende, suicidatosi nel palazzo presidenziale sotto i bombardamenti dell’aviazione militare.



Il generale Augusto Pinochet avrebbe governato poi, il paese per altri quattordici anni. Il suo regime si distinse per la violenta repressione degli oppositori politici, veri o presunti.

 

 

 

Dopo il golpe lo Stadio Nazionale di Santiago, situato a pochi metri dai campi di gioco da tennis, divenne un enorme campo di concentramento dove vennero torturate e interrogate oltre 40mila persone, molte delle quali divennero “desaparecidos”.

 

 

 

In Italia, nel 1976, ci si trovava negli anni di piombo e del terrorismo politico e il tennis italiano stava vivendo una delle sue migliori stagioni di sempre. Il ventiseienne Adriano Panatta aveva vinto gli Internazionali di Roma a maggio e il Roland Garros di Parigi a giugno. Ad agosto, insieme al compagno di doppio Bertolucci, a Barazzutti e Zugarelli, riuscì a battere la Gran Bretagna a Wimbledon nella finale europea della Coppa Davis, un risultato che permise loro di arrivare alla semifinale intercontinentale.


Fino ad allora l’Italia l’aveva soltanto sfiorata, per due volte consecutive tra il 1960 e il 1961. Prima a Sydney e poi a Melbourne, era sempre stata battuta nettamente dall’Australia. Nel settembre del 1976 si giocò però al Foro Italico di Roma, e l’Italia riuscì a battere John Newcombe, Tony Roche e John Alexander qualificandosi alla terza finale della sua storia.

 

 

Dall’altra parte del tabellone l’Unione Sovietica, su ordine del segretario generale del Partito Comunista Leonid Brezhnev, si era rifiutata di ospitare il Cile per protesta contro il regime di Pinochet. Il Cile passò quindi automaticamente in finale, e in Italia, paese che aveva ospitato numerosi esuli cileni e dove la questione era molto sentita iniziarono lunghe e accese discussioni. Sulla Rai, il 27 novembre, andò in onda in prima serata un dibattito di un’ora e un quarto interamente dedicato alla partecipazione, e il Partito Comunista portò la questione in parlamento.

 

 

Domenico Modugno scrisse una ballata in favore del boicottaggio e la cantò a un comizio organizzato dalla comunità cilena in Italia. Ugo Tognazzi disse invece in un’intervista: «Noi in Cile esporteremo automobili, sicuramente cinema, e importiamo rame. Ora, perché proprio non vogliamo esportare Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Pietrangeli?».

 

 

 

Le discussioni andarono avanti tra pareri diversi da settembre a dicembre, ma i tennisti avevano le idee chiare sul da farsi: volevano andare a Santiago e vincere la Coppa Davis e non “regalarla” al Cile dandogli la vittoria a tavolino, in ossequio al dogma sportivo della competizione. Il governo, il CONI ebbero un atteggiamento pilatesco e la finale iniziò il 17 dicembre, proprio accanto al famigerato Stadio Nazionale.

 


Corrado Barazzutti batté Jaime Fillol e Panatta sconfisse Patricio Cornejo portando il risultato dopo la prima giornata sul 2-0. Il secondo giorno, un sabato, toccò ancora a Panatta, nel doppio con Bertolucci, ottenere il punto decisivo. Il primo, di sinistra, propose al compagno di indossare nei primi set magliette rosse, come il colore dei fazzoletti che le donne cilene usavano per denunciare la scomparsa di padri, mariti e figli per mano del regime.

Al ritorno a Roma non ci furono tante celebrazioni, e anzi, all’aeroporto di Fiumicino i tennisti dovettero evitare i contestatori che li attendevano all’esterno. Era meglio far vincere l’antisport?

Non enumereremo i boicottaggi americani e russi alle recenti Olimpiadi, né le squalifiche alle compagini russe, comminate dopo l’invasione dell’Ucraina.

Il Giorno della Memoria (27 gennaio) è la storia del dolore condiviso, ma anche della presa di coscienza di quanto l’uomo sia stato capace di tanta efferatezza. Ricordare la data significa strapparla all’oblio, in maniera che ciò non possa tragicamente ripetersi e per dirla con Primo Levi:

“l’olocausto è una pagina del libro dell’umanità da cui non dovremmo
mai togliere il segnalibro della memoria”.


A tal fine a Roma ogni anno si corre una piccola maratona non competitiva, ”Run for memory”, attraverso il quartiere ebraico. Si corre per non dimenticare quella umanità cancellata e quell’assurdo destino che non trova giustificazione, ma anche per abbracciare dopo tanti anni i pochi sopravvissuti. Correre e riflettere sugli orrori, visitando anche le località in cui sono stati perpetrati: Bergen-Belsen, Mauthausen, Dachau, Birkenau per sentire e toccare quell’estrema sofferenza.


Dalla Stazione Centrale di Milano, in uno spazio che originariamente era adibito al carico e scarico dei vagoni postali, tra il 1943 e il 1945 partivano i convogli diretti con centinaia di deportati ebrei, ma non solo, diretti verso i campi di concentramento e di sterminio. Sotto il piano dei binari si trova ora il “Memoriale della Shoah”. “Dimenticare lo sterminio, fa parte dello sterminio” ebbe a dire il grande regista francese Jean Louis Godard.


Alessandro Blasi e Sergio De Benedictis
01-12-2022

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