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  Indagini aperte su due lettere inviate dal Carcere Giudiziario di Arezzo nel 1943 (II parte)
di Roberto Monticini

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Avevamo concluso l’articolo, pubblicato sul n. 31 de Il Monitore della Toscana, avanzando quattro ipotesi sulla presenza di carcerati jugoslavi nel carcere di Arezzo, chiedendoci il motivo della loro detenzione. L’ultima ipotesi era la più verosimile, ma non quella corretta.

La risposta, valida almeno per uno dei due carcerati ossia per Milissav Matovich, mittente della seconda lettera che invia al proprio figlio Milan, ce l’ha fornita il professore Veselko Guštin.
Il professore, attento studioso e ricercatore, ha trovato un articolo in questo sito: https://www.montenegrina.net/ lo scritto descrive, insieme ad altre, la figura di questo prigioniero che risulterà essere un interessante personaggio: eccone una fedele traduzione:

»MILISAV MATOVIĆ
Figlio di Milovan, giunse in Spagna quando era studente della Scuola Agraria di Križevci (Croazia). Partito da Fiume, Milisav Matović giunse in Italia, da dove raggiunse la Spagna in nave. Ad Alicante fu inquadrato nella 12^ Interbrigata Italia, nel cui Battaglione “Garibaldi” gli fu dato il nome di Mario Baronti. Combatté sino al 15 maggio 1938 come “combattente semplice”. Nelle battaglie sull’Ebro fu ferito alla schiena vicino alla colonna vertebrale. Gravemente ferito, malato e completamente debilitato, fu evacuato in Francia e, dopo essersi ristabilito, tornò in patria attraverso l’Italia.
Trovò lavoro presso l’ufficio postale di Petnjica (Montenegro) da dove, in qualità di comandante di un gruppo di insorti combatté a Berane contro gli occupanti. Lì organizzò la custodia dei prigionieri italiani e la distribuzione delle loro armi ed il 20 luglio “sventolò la bandiera rossa sul colle di Lagatori (località nel territorio di Petnjica)”. Poco dopo, nell’ottobre del 1941 fu arrestato dagli italiani per tradimento e condannato all’ergastolo.
Nel carcere sugli Appennini due volte organizzò uno sciopero della fame. Gli fratturarono le costole e le braccia e lo tennero in isolamento. Fu liberato da quell’inferno, che era il campo di prigionia “Ðamijano”, dai partigiani italiani. Si unì a loro in qualità di commissario nella brigata “Garibaldi” operante in Toscana.
Giunse a Lissa (Croazia) dove fu assegnato alla 19^ Brigata dalmata. Comandante di plotone, fu ferito due volte nei combattimenti presso Knin e durante la liberazione di Fiume, rimanendo invalido all’80%.
Fu amministratore economico a Lepoglava e a Jankomir, vicino Zagabria. «

Andrea Giuseppini, creatore del sito https://campifascisti.it/, a seguito dell’invito pervenutogli dal professore Veselko Guštin, ha elaborato un’attendibile ipotesi per individuare il campo di prigionia “Ðamijano” (così citato nel testo montenegrino) che lo porta a poter dichiarare che, con ogni probabilità, possa essersi trattato del carcere di S. Gimignano, non troppo distante da quello di Arezzo. A questa teoria apporta fondamento anche una lapide apposta in quel carcere, dove possiamo leggere:

È pertanto plausibile l’ipotesi che tra i “72 detenuti politici di varie nazionalità condannati dai tribunali fascisti” liberati dai partigiani, possa esserci stato anche l’autore della lettera: Milissav Matovich, unitosi poi ai partigiani italiani.

Se nel presentare l’articolo al nostro redattore Càroli, visto che lo scritto non solo illustrava, ma anche argomentava su due lettere di detenuti nel carcere aretino, nutrivo dubbi circa l’interesse che avrebbe potuto suscitare un argomento di studio così “insolito” per noi toscani e pertanto prefiguravo che sarebbe stato attenzionato solo da pochi lettori: ho dovuto ricredermi perché il tema ha suscitato invece interesse. Un altro professore, Clemente Fedele, successivamente al professor Guštin, mi ha scritto ed inviato un’immagine, reperita nel web, riferita alla prima lettera, ovvero a quella inviata da Aosin Hadzimuratovic a Mihailo Motovic, al tempo Direttore di Posta a Berane ora Ispettore delle poste a Cetinje, l’antica capitale reale del Montenegro. Busta filatelica, che ci racconta che Mihailo Matovic doveva essere anche un collezionista.

Il professor Fedele conclude scrivendo: “Curiosa e misteriosa la vicenda che si nasconde dietro questi fogli che hai fatto bene a mostrare. Trovo fascinosi i fili tra filatelia e vicende personali in un contesto tragico come quello della guerra.

Unitamente ai professori Veselko Guštin e Clemente Fedele, ringrazio anche Andrea Giuseppini e Lorenzo Tramontano per i fattivi contributi gentilmente offerti.

Roberto Monticini
Il Monitore della Toscana n. 32, novembre 2020
Rivista della Associazione Italiana per lo Studio della Storia Postale Toscana