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  peste nell'aretino
di Michele Polverini

origine della PESTe

Le epidemie di peste nella storia


peste nell’aretino

Ben si comprende quindi che anche in AREZZO e nel suo territorio, il presentarsi dell’epidemia abbia provocato, come conseguenza, non solo la paura di una morte, interpretata come castigo divino, ma anche un cambiamento drastico dell’economia locale data la forzata redistribuzione dei beni lasciati dalle famiglie, prive di eredi, alle istituzioni caritatevoli presenti nel territorio come la FRATERNITAS SANCTA MARIA DE MISERICORDIA costituita ufficialmente nel 1263 (attuale Fraternita dei Laici). In quella occasione i provvedimenti adottati dai magistrati di Fraternita e poi messi in atto dal comune di Arezzo evitarono che la peste del 1348 (epoca nella quale sono ambientate le novelle del Boccaccio) entrasse dentro le mura cittadine in quanto l’ordine dato fu quello di chiudere tutte le porte di accesso cittadine, confinando così la peste all’esterno della città murata. In questo periodo vi furono comunque due casi di peste certa: viandanti in transito che rientravano verso il Valdarno, i quali, fuori le mura, furono colti da malore e vennero alloggiati presso il Lebbrosario di San Lazzaro situato in Via Romana dato che la città era chiusa per limitare il contagio.

il lebbrosario di San Lazzaro ad Arezzo nell'attuale Via Romana
(da: http://www.amarantomagazine.it/news_dett.php?id=409)


All’epoca, ignari che i vettori erano le pulci, gli abiti degli appestati venivano sotterrati sotto calce viva ritenendoli vettori di peste.
Successivamente la peste tende lentamente scomparire per riproporsi poi nel 1631: Arezzo si salvò da quest’ultimo contagio grazie ai provvedimenti di sanità pubblica, che risultarono decisivi per la salvezza della città. Anche la Fraternita dei Laici mise in atto tutta una serie di accorgimenti riportati e descritti negli ANNALI ARETINI di Fraternita III volume pubblicati nel 1995. Già agli inizi del Trecento ad Arezzo vi era l’obbligo di coprire i corpi dei defunti trasportati su bara, eccezion fatta per i fanciulli minori di quattro anni, che invece potevano essere portati scoperti ed a braccia.

Successivamente la prescrizione, verso la metà del Trecento, viene inserita e minutamente dettagliata in uno Statuto adottato dalla Fraternita, alla quale è ormai attribuita la competenza ad occuparsi della morte di ogni cittadino. Vengono stabiliti il colore ed il numero di panni funerari, nonché il numero massimo di ceri per cerimonia funebre.

Superato l’Appennino ed attraversata Prato, la seconda ondata di peste giunse a Firenze, che non godeva certo di buone condizioni igienico-sanitarie, scontando ancora la città le conseguenze di una epidemia di tifo petecchiale fra l’ottobre del 1620 e il giugno 1621. I risultati delle indagini promosse dagli “uffiziali della sanità” furono inviati, a mezzo di una dettagliata relazione, colma di “stupefatto orrore”, al Granduca Ferdinando II dei Medici il 3 gennaio 1621.

Cosi scrivevano i Magistrati “ci ha dato da pensare che camminando innanzi in questo modo sia miracolo se non si precipiti in una peste”. È infatti tra il 1620 e il 1621 che in Firenze una epidemia di tifo pettecchiale precede quella della peste. Anche in questo caso furono parassiti umani, come il comune pidocchio, il veicolo di propagazione delle Rickettsia prowazekii, ossia il tifo Petecchiale. Il pidocchio, ospite nell’uomo, contamina la sua nuova vittima, attraverso il morso, trasmettendo le Rickettsie, che hanno proliferato nel suo stomaco. Dopo il morso, che causa prurito, la vittima si gratta favorendo così l’invasione delle Rickettsie attraverso la lesione provocata dal pidocchio. La malattia ha un periodo d’incubazione variabile tra 5 e 15 giorni. L’insorgenza è in genere abbastanza improvvisa: brivido prolungato, cefalea, dolori lombari e articolari, vertigine e vomito. In sei, sette giorni la temperatura corporea sale fino a quaranta gradi. In mancanza di esami batteriologici la diagnosi può risultare difficile. Come la peste Bubbonica dopo quattro o cinque giorni compare l’inconfondibile bubbone, soffusioni emorragiche dovute all’azione delle tossine delle Rickettsie sulle cellule endoteliali dei capillari sanguigni.

Ferdinando II dei Medici (1610-1670) divenne Granduca di Toscana nel 1621, alla morte del padre Cosimo II, quando aveva appena soli 11 anni. La reggenza fu affidata alla madre Maria Maddalena D’Austria ed alla nonna paterna Cristina Lorena. Ferdinando, uomo semplice nei modi, prestava personalmente soccorso durante l’epidemia di peste. Nella sola Firenze la popolazione diminuì del 10%. La situazione non era certo migliore ad Arezzo.Certo è che la Magistratura Granducale cercò di adottare tutti quei provvedimenti che, in assenza di conoscenza sulle reali modalità di trasmissione, si riteneva potessero apportare benefici. In questo passaggio i medici locali ebbero un ruolo fondamentale.

Gregorio Redi, padre di Francesco Redi, si laurea in medicina il 31 maggio 1622, nel 1625 sposa Cecilia Ghinci ed il 18 febbraio del 1626, in Arezzo, vede la nascita del suo primogenito Francesco. Di certo sappiamo che Gregorio era ad Arezzo nell’ottobre 1630. Le disposizioni del Magistrato fiorentino, all’epoca, imponevano oltre che l’obbligo di non lasciare la propria sede, quello di mettersi a disposizione delle autorità sanitarie ed anche, a mezzo di sottoscrizione, l’assunzione di questo impegno personale: Gregorio rimase quindi in Arezzo fino alla fine del 1631. Per fare fronte alle necessità economiche che una tale situazione straordinaria produceva, il Granduca contrasse un mutuo con il Monte di Pietà di Firenze, sintetizzato nel motto “grano a chi lo può pagare”.
La Fraternita, radicata già da molto tempo sul territorio aretino e per questo guardata con rispetto, maturò ben altro progetto.

La Fraternita mise in vendita un’aliquota di beni immobili di proprietà per 10.000 scudi e, con ordinanza Granducale, fu fatta preparare una struttura atta a rifornire di cibi la cittadinanza ed il Lazzaretto di via Romana. L’ordinanza si interessava e tutelava anche quelle case che si dovevano ”rinserrare” affinché i “disgraziati non morino di fame e di stento”. Si operò con criteri innovativi, pionieristici per l’epoca: i poveri avrebbero avuto pane comprato nelle botteghe del Comune ”in Piazza Grande, a Badalisco di piazzola san Michele, agli scaletti della Pieve e al Canto della Croce”. I magistrati avevano dato ordini di chiudere le porte della città, provvedimento necessario ed obbligato, perché sarebbe stato davvero disastroso se la peste fosse entrata in AREZZO in quanto, inevitabilmente, avrebbe prodotto un contagio di massa. Interessanti notizie sulla cronaca delle peste di Arezzo vengono date negli ANNALI ARETINI del 1995 da Enzo Droandi “la peste del 1631 un voto ed un tabernacolo”, in essi scrive:

"Di fronte al demolito Ospedale vecchio (del dopoguerra) di Arezzo, oltre la chiesa di Santa Croce, lato abside, all’inizio di via Fonte della Veneziana, c è un grande tabernacolo di laterizio una costruzione grossa, un po’ goffa. Nella parte alta è raffigurata la Madonna con l’Eterno e pochi resti di figure tutto il resto è perduto (causa ingiurie del tempo e incuria dei cittadini). Per comprendere bene l’ambiente ed il paesaggio dei tempi, ci si può riferire ad un rilevantissimo olio su tela con “veduta dei dintorni di Arezzo” dalla parte orientale della città, dalla collezione di Fraternita ora al Museo Medioevale e Moderno di Arezzo. Vi erano soltanto campi coltivati ed la presenza di una sola casa proprio di fronte all’abside della chiesa di SANTA CROCE, oggi quartiere di porta Crucifera e l’assenza di qualsiasi segno o traccia del cimitero urbano monumentale di Arezzo che verrà iniziato nel 1667 per le “febbri petecchiali”. Bene questo ex voto alla Madonna rappresenta il ricordo del grande episodio di peste del 1630-31 e la vicenda di Arezzo investita dalla peste ma salva. Occorre al riguardo ricordare che lo Spedaletto o Lazzaretto di via Romana era il luogo dove venivano convogliati passanti, vetturali e perfino soldati di ritorno dalla guerra di Mantova ed aretini messi in quarantena. Era un luogo nel quali era molto facile ammalarsi. Nel libro dei morti n. 894 concernente Arezzo si legge che l’8 marzo 1631 cessarono di vivere Girolamo figliolo di Vitale Vitali e Bartolomeo di Clemente di Arezzo ospiti al Lazzaretto. Da questi potremmo ragionevolmente presupporre che Girolamo e Bartolomeo fossero aretini da “dentro le mura” convogliati per chi sa quale malattia sospetta e incappati nella peste nel Lazzaretto. Si cercava di impedire ogni contatto tra “fuori” e “dentro” la città. Fatto è che preghiere, fede, sanità, pane e casualità fecero il miracolo ed Arezzo fu salva in mezzo a tanto sfacelo.


Quello che resta del tabernacolo di Via della Fonte Veneziana

Sulla base delle notizie raccolte e dei documenti letti si può affermare che il Tabernacolo del 1631 eretto in quel preciso punto di via di Fonte Veneziana sia ragionevolmente da attribuire come costruzione a Sebastiano Pontenani. Questo punto era allora a pochi metri dall’abitato chiuso da cinte murarie di Arezzo. In quello stesso punto un documento inedito della parrocchia ci dice che “il libro dei morti di Santa Croce fuori di Porta Colcitrone volume primo, parroco Donato Maiani, sotto la data al numero 9 del 13 Luglio 1631 vi si legge che “GIULIO DI SANTI della Pieve Santo Stefano di anni 43 ricevè tutti li sac.ti di la Chiesa non ostante fusse sospetto di peste per venire di maremma morse in detta stalla alle fornaci…. al numero 10 si legge “A dì Giovanni di Santi fratello del sopra detto riceve…. et furono sepolti in Santa Croce. I poveri Giulio e Giovanni figlioli di Santi della Pieve Santo Stefano, sciagurati viandanti delle belle quanto terribili maremmate che per secoli hanno dannato le nostre genti montane “per venire di maremma” vennero su pei poderi della “Mattonaia” e del “Miccione” e si fermarono alle “Fornaci” per morire di peste a pochi metri da Arezzo".

Da ricordare pur tuttavia che ancor oggi, nell’anno 2016, persistono ancora sporadici casi di peste in varie parti del mondo dall’Africa all’Asia e perfino nelle Americhe.
Michele Polverini

Bibliografia


Archivio della fraternità dei laici di Arezzo anno 1631 vol 894
Annali aretini della fraternità dei laici III vol. ed 1995
Contra infectionem estratto da “storia degli eventi infettivi nella pratica operatoria” servizio Farmacia dell’Istituto Europeo di Oncologia
Fraternita dei Laici estratto da “la Fraternita dei Laici nella storia della sanita Aretina” atti del convegno Arezzo 3 Febbraio 2012.