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La campagna del 1867 nel Pontificio
di Giuseppe Marchese

Agli inizi del 1867 vi erano delle forze politiche che premevano affinché Roma diventasse la capitale d'Italia. A questi fervori si frapponeva la politica del Governo che aveva concordato con quello francese il mantenimento dello status quo nello Stato Pontificio.

Garibaldi tuttavia non dorme: malgrado fosse stato arrestato ad Alessandria e poi spedito a Caprera e sorvegliato a vista da diverse navi da guerra, alle prime avvisaglie dei moti fugge dall'isola e arriva a Firenze il 20 ottobre 1867.

In varie città dell'Italia centrale vi è grande agitazione: trambusti e anche barricate come a Viterbo e Spoleto fin dai primi di ottobre.

Firenze intanto accoglie entusiasticamente Garibaldi: da parte governativa si osteggia questa presenza imbarazzante che può mettere in forse, come poi avvenne, l'intesa franco-italiana.

Il Generale è impaziente e già il 22 su un convoglio speciale si dirige verso Passo di Corese, alla frontiera romana, dove arriva il giorno seguente.

Al richiamo del suo nome un gran numero di volontari si appresta all'impresa tanto sospirata: togliere il potere temporale al Papa e fare di Roma la capitale d'Italia.

Il 24 Ottobre inizia l'attacco dei garibaldini a Monterotondo. I collegamenti sono imperfetti e una colonna di volontari giunge sotto Monterotondo il 23 pomeriggio facendo fallire il proposito di sorprendere la città con un attacco notturno.

L'attacco vero e proprio viene quindi sferrato il 24 alle ore 10 di mattina, ma i volontari trovano una difesa notevole e tutto il giorno «fu dunque occupato a cingere colle forze nostre la città», per usare le parole di Garibaldi.

Lo stesso giorno 24 a Terni un numeroso gruppo di volontari si appresta a partire per il Lazio; tra questi il nostro volontario che scrive: «Stasera io sarò al campo di Garibaldi. Parto a momenti col conte Luigi Pianciani... noi vinceremo e entreremo a Roma... scrivo in un caffè, tra il frastuono di cento persone».

Il momento è veramente storico e ben se ne avvedono i volontari che partono per quella che essi credono l'ultima battaglia per l'unità d'Italia.

L'attacco finale a Monterotondo inizia il 25 alle ore 24 antimeridiane e prosegue per tutto il giorno. I volontari sono spossati dalla stanchezza, senza viveri e male armati; tuttavia il loro ardore supplisce alle deficienze e così il giorno 26 alle ore 11 la guarnigione pontificia si arrende.

Il volontario da Monterotondo il 27 Ottobre scrive: «Mia cara, sto benissimo. Siamo padroni di Monterotondo e abbiamo preso due cannoni e armi e 250 prigionieri dopo due giorni di combattimento».

Terminata la battaglia narra Garibaldi nel suo diario: «successe in Monterotondo ciocché succede in una città presa d'assalto, e che poca simpatia s'era meritata, per il mutismo e per l'indifferenza, quasi avversione, manifestata verso di noi. E devo confessare che disordini non ne mancarono. E tali disordini impedirono pure di poter organizzare dovutamente la milizia nostra; quindi poco si poté fare in quel senso, nei pochi giorni che vi soggiornammo. Colla speranza di poter meglio organizzare la gente fuori, tenendola in moto, toglierla ai disordini della città, ed avvicinarci a Roma, uscimmo da Monterotondo il 28 Ottobre».

Questa affermazione di Garibaldi di una situazione difficile a Monterotondo, attribuendone la causa ai cittadini che si sono mostrati ostili o indolenti verso i volontari, trova riscontro nella lettera del 27 Ottobre del nostro volontario.

Ecco quanto egli annota: «...lascio di scrivere perché sento che il Generale s'é affacciato alla finestra per parlare ai volontari. Ripiglio la penna commosso. Il Generale ha fatto un magnifico discorso, annunciando che farà fucilare quei volontari che rubano e che commettono altri delitti. Perciò si è costituito il Tribunale di Guerra, del quale io sono segretario. Ha terminato annunziando che alle 2 pomeridiane egli parte alla volta di Roma. Adesso è l'una! Abbiamo un'ora di tempo».

Qualche azione sporca da parte di alcuni volontari e l'insofferenza dei cittadini inducono il Generale a levare le tende e spostarsi in un posto avanzato verso Roma.

Il grosso dei Volontari con Garibaldi raggiunge quindi Castel Giubileo e il casino dei Pazzi, a due tiri di fucile dal Ponte Nomentano, dice Garibaldi, il mattino del 30 Ottobre.

Un'altra colonna prende la via di Tivoli che raggiunge il 29 alle ore 6 di sera, e della quale fa parte il nostro volontario.

Da Tivoli egli scrive il 31 accennando a episodici scontri con gli zuavi e ricordando la fame arretrata sofferta durante l'assalto di Monterotondo.

Questa colonna non parteciperà poi alla battaglia di Mentana del 3 Novembre nella quale si troverà impegnato il grosso delle truppe volontarie. Infatti Garibaldi considerando la posizione, a pochi passi da Roma, troppo esposta per l'arrivo dei francesi già sbarcati a Civitavecchia, ripiega di nuovo su Monterotondo che viene raggiunta il 31 Ottobre.

da: http://federiciblog.altervista.org/2011/11/05/3-novembre-1867-la-vittoria-pontificia-di-mentana/

Garibaldi asserisce di avere ai suoi ordini circa 6.000 uomini e ritiene che il popolo romano, «oppresso e massacrato nei suoi tentativi insurrezionali», gridi vendetta e si prepari, capitanato da Cucchi ed altri prodi, a cooperare coi liberatori di fuori e farla finita con preti e mercenari.

Nelle sue memorie Garibaldi fa un'analisi della sconfitta di Mentana attribuendola a vari fattori che egli così elenca:

- indegno comportamento dei governanti italiani che ingannano gli italiani invadendo il territorio romano con lo scopo di ostacolare le azioni dei volontari e negando ad essi gli aiuti di cui essi abbisognano;

- la propaganda dissolvente dei mazziniani che fomenta lo scompiglio e alimenta la diserzione al grido di «andiamo a casa a proclamare la repubblica, e far le barricate».

Zuavo pontificio (foto D'Alessandri, circa 1865)

Questo atteggiamento fu gravissimo, secondo Garibaldi, perché favori la diserzione di circa 3.000 uomini e fu il vero motivo della non tenuta dei volontari di fronte all'attacco congiunto di zuavi e francesi.

Un ben più modesto contributo l'eroe lo attribuisce ai famigerati fucili chassepots che nella recente storiografia sembrano aver preso il primo posto quale motivo della disfatta.

Nella ricostruzione della battaglia fatta da Garibaldi questo viene considerato un elemento secondario, mentre la non tenuta dei volontari viene considerata la causa prima della disfatta.

Dopo Mentana, la stessa notte del giorno 3, i volontari che ancora sono nei pressi di Monterotondo riattraversano il Passo di Corese rientrando in territorio italiano.

La colonna di Tivoli saprà l'infausta notizia l'indomani e il giorno 5 alle due dopo mezzanotte muove per raggiungere il confine italiano con un percorso attraverso i monti dato che la strada per Monterotondo è interrotta.

La colonna raggiunge Orvinio dopo tre giorni di marcia faticosissima, l'8 Novembre nel pomeriggio, dove il corpo si scioglie.

Qui finisce la campagna del 1867 nel Lazio. Garibaldi viene arrestato a Firenze e rinchiuso nel forte di Varignano; i volontari ritornano alle loro case.

E veniamo ora alle notizie storico-postali.

L'entrata dei volontari in territorio pontificio comporta dei problemi per la spedizione della corrispondenza.

Il Gallenga nel suo volume Bolli del Lazio, a pag. 33, parla di una relazione del Direttore delle Poste di Acquapendente in cui si lamenta che i soldati italiani imbucavano le lettere affrancate con i bollini di V. Emanuele o altrimenti volevano pagare i francobolli pontifici con la carta della Banca Nazionale. Termina lo studioso, affermando che di queste lettere spedite da Acquapendente nel 1867 con francobolli italiani non ne siano state ritrovate.

In effetti pare dal carteggio preso a base di studio per questo articolo che i volontari abbiano considerato, dal punto di vista postale, le località conquistate come territori italiani; per questo motivo non volevano affrancare le lettere con francobolli pontifici. In molte lettere ricorre l'annotazione «qui non si trovano francobolli italiani» e la spedizione in porto assegnato.

Una sola lettera del carteggio reca francobolli italiani ed è la prima scritta entrando in territorio pontificio, il 27 Ottobre, da Monterotondo. La lettera tuttavia venne annullata a Poggio Mirteto lo stesso giorno segno che l'ufficio postale pontificio si rifiutava di annullare i francobolli italiani.

Al seguito dei volontari nella loro breve campagna, che è bene ricordarlo durò solo undici giorni, non vi era nessun supporto logistico, nessuno aveva francobolli né questi potevano essere reperiti; nessun ufficio aveva timbri di franchigia o corrispondeva con la parte italiana dato che i volontari erano osteggiati dal Governo italiano che aveva dato disposizioni di isolarli completamente.

Le lettere provenienti dallo Stato Pontificio erano normalmente tassate a destino secondo le norme stabilite dal R.D. N. 3884 del 18 agosto 1867: 20 c. la tassa per le lettere affrancate, 30 c. quella per le non affrancate.

Dall'esame del carteggio deriva un'altra considerazione.

Il giovane garibaldino fa un accorato appello alla probabile fidanzata perché gli scriva, per maggiore sicurezza, al suo indirizzo di Segretario del Consiglio di guerra del Corpo dei Volontari Italiani, Passo di Corese per Monterotondo. Quindi di scrivergli a nome del conte Pianciani, e infine il giorno 12 Novembre da Spoleto comunica di aver trovato a Terni «la lettera che mi spedisti a Corese...». Questi ragguagli fanno supporre che la posta verso il Pontificio non sia mai stata attivata per i volontari e che le lettere venissero fermate al confine.

Una campagna sfortunata, durata pochi giorni e con pochi e non appariscenti documenti postali, questa del 1867, molto più misconosciuta in campo filatelico di quella intrapresa dai Cacciatori del Tevere nel 1860.

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