LA POSTA DEI PRIGIONIERI DI GUERRA
Missione speciale A.O.I. - La posta delle “Navi Bianche”
di Maria MARCHETTI
(FIL-ITALIA Volume XLI, no. 4 Autumn 2015)

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La missione

Cartolina in franchigia per le forze armate italiane illustrata da G. Boccasile, stampata nel 1942 a cura del Partito Nazionale Fascista – Opera Nazionale Dopolavoro, che commemora la resa dell'Africa Orientale Italiana

Il 27 novembre 1941 si arrendeva ai britannici il ridotto di Gondar, ultimo caposaldo italiano nell'Africa Orientale, atto finale di una disfatta per la quale ben poca consolazione poteva arrivare dalla propaganda del regime.

Al termine dell'avventura culminata nel 1935 con l'invasione dell'Etiopia, l'amaro esito fu che decine di migliaia di uomini, militari e civili, finirono internati nei campi di prigionia. Molti di essi lasciavano sul territorio le loro famiglie alla mercé del nemico: erano i funzionari, i militari residenti, i lavoratori che vi si erano recati alla ricerca di una vita meno grama di quella che conducevano in Patria.

In Etiopia, fin dall'inizio delle ostilità, il Viceré Amedeo d'Aosta aveva dato ordine di raggruppare nelle città principali le donne e i bambini, per meglio proteggerli e per ridurre l'ostacolo che la loro presenza creava alle operazioni militari. Occupandola, gli inglesi trovarono circa 20.000 civili inermi, principalmente ad Addis Abeba, ma anche a Gimma, nel Galla e Sidama.

Mentre i militari, i funzionari e tutti gli uomini validi erano stati portati nei campi lontano dall’Etiopia fino dal periodo immediatamente successivo alla resa, gli anziani, le donne e i bambini o ragazzi fino ai 16 anni di età furono internati abbastanza lentamente e solo nel febbraio del 1942 tutti avevano raggiunto i campi di prigionia, in vista della restituzione del Paese al legittimo sovrano, avvenuta in quello stesso mese. Alcuni furono inviati nel campo di Nyeri in Kenia, la maggioranza fu raccolta in attesa di una soluzione, nei campi di Dire Daua e di Harar, la cui giurisdizione fu mantenuta dagli inglesi.

La situazione delle donne e dei bambini residenti in Eritrea e Somalia era meno preoccupante dal punto di vista della sicurezza e per molti di loro non fu necessario l'internamento nei campi, ma anche per essi vi era il problema del sostentamento, tenuto conto che, anche in questo caso, si trattava di famiglie i cui uomini validi si trovavano prigionieri in Sudan, India, Kenia, Sud Africa, Rodesia del Sud, Tanganika.

Fin dal mese di maggio '41, dopo la resa di Addis Abeba, gli inglesi si fecero promotori del rimpatrio e avviarono i contatti attraverso le diplomazie americana e svizzera. Non trovarono subito il consenso del Duce, inizialmente solleticato dall'idea di lasciare agli inglesi l'incombenza di provvedere al sostentamento in Africa di qualche decina di migliaia di europei non sfruttabili come lavoratori.

Nell'Africa Orientale, intanto, cresceva l'attesa del rimpatrio, un pensiero fisso sia per le famiglie che per i rispettivi uomini rinchiusi nei campi. Dal campo di Mandera, nel Somaliland, il tenente Bassignano il 29 novembre 1941 scriveva alla fidanzata, ancora residente in Addis Abeba: “...qui si sta preparando per accogliere dei civili in transito. Non so se transiteranno da questo porto o siano ripartiti su più itinerari, tuttavia è certo che da qui transiteranno alcune migliaia di famiglie per imbarcarsi a Berbera. Chissà se voi sarete in questo lotto...”.

Lettera scritta il 29/11/41 nel campo di transito di Mandera, vicino al porto di Berbera, nel Somaliland, diretta ad una donna ancora domiciliata in Addis Abeba, dove la lettera giunse il 5 dicembre 1941, data del timbro dell'Ufficio di posta militare inglese n. 60 ivi dislocato. Nel testo: “..ma qui si sta preparando per accogliere dei civili in transito. Non so se tutti transiteranno da questo porto o siano ripartiti su più itinerari, tuttavia è certo che da qui transiteranno alcune migliaia di famiglie per imbarcarsi a Berbera. Chissà se anche voi sarete in questo lotto….”



L'attesa era destinata a durare ancora 6 mesi per le donne e i bambini internati nei campi di Dire Daua, molti di più per coloro che rimpatriarono per ultimi.

Quando il Governo italiano ebbe deciso che dovevano essere riportati a casa e che per farlo si potevano rischiare 4 fra le più belle unità della flotta passeggeri, iniziarono le trattative dirette fra inglesi e italiani per concordare i vari aspetti organizzativi.

Il principale accordo da raggiungere riguardava la rotta: gli inglesi imposero il lunghissimo periplo dell'Africa, non accettando l'attraversamento del Canale di Suez per evidenti ragioni militari. Fu anche convenuto che le navi avrebbero viaggiato indipendentemente dagli avvenimenti bellici, munite di salvacondotto, dipinte di bianco con grandi croci rosse e illuminate di notte, per evitare di subire attacchi per errore. A Gibilterra avrebbero preso a bordo una scorta militare inglese, da sbarcare al ritorno nello stesso porto.
Per il rifornimento in viaggio del carburante fu concordato di utilizzare le navi Arcola e Taigete, due cisterne petroliere che, trovandosi fuori dal Mediterraneo all'atto della dichiarazione di guerra dell'Italia, si erano rifugiate nel porto neutrale di Santa Cruz di Tenerife, nelle Canarie. Munite di salvacondotto e dei distintivi chiaramente visibili di giorno e di notte, con a bordo una scorta militare britannica, si sarebbero recate a Curacao, nei Caraibi, a caricare il combustibile con il quale rifornire le navi delle missioni negli scali di San Vincenzo di Capoverde o di Las Palmas.

Nei cantieri italiani furono preparate 4 grandi navi normalmente impiegate per trasporto passeggeri sulle rotte oceaniche, i piroscafi “Duilio” e “Giulio Cesare” del Lloyd Adriatico e le motonavi “Saturnia” e “Vulcania” della Società di Navigazione Italia, sulle quali furono effettuate le modifiche per renderle adatte ad alloggiare moltissimi bambini e persone duramente provate dalla prigionia.

La capienza fu aumentata, modificando gli spazi comuni e le cabine, fino a raggiungere 2500 posti per i passeggeri e per i marinai, le crocerossine, le suore, i medici, i tecnici vari e la scorta inglese. Furono creati un reparto ospedaliero con 150 posti letto, una sala parto, due sale operatorie, un laboratorio di batteriologia, un gabinetto dentistico, una farmacia, un reparto di isolamento per gli infettivi, un ufficio postale, due sportelli bancari, due bar, parrucchiere, calzolaio, biblioteca, cinema, ecc. Si provvide ad imbarcare giocattoli, indumenti e tutto quello che sarebbe stato utile per un viaggio tanto lungo.

A causa della livrea bianca con le croci rosse, tipica delle navi ospedale, ricevettero ben preso la designazione di “navi bianche”.

Le turbonavi Vulcania e Saturnia con la livrea della missione ormeggiate nel porto di Genova, in un fotografia dell'Istituto Luce



Finalmente, il 2 aprile 1942 ebbe inizio la missione, al comando di Sua Eccellenza Saverio Caroselli, già governatore della Somalia Italiana. Nome ufficiale dell'operazione: “Missione Speciale A.O.I.”

Contemporaneamente, si mise all'opera la propaganda, per recuperare un po' di favore dell'opinione pubblica, stordita per la terribile sberla della perdita dell'Africa Orientale. Ogni mezzo fu usato per trasformare in un merito del regime la grande impresa della marineria italiana e il successo della diplomazia e del diritto umanitario.

Il retro di una cartolina in franchigia sulla quale il mittente, interessato al rimpatrio di familiari, ha incollato un ritaglio di giornale che parla della missione. (collezione Beniamino Cadioli)

 


I viaggi

Le tre tornate di viaggi ebbero andamento abbastanza simile, con qualche variante negli scali del terzo viaggio, nel corso del quale i profughi della Somalia furono imbarcati direttamente a Mogadiscio. La durata di ciascuno viaggio fu di circa 3 mesi, comprensivi di andata, ritorno, soste.
A Capoverde o a Las Palmas i piroscafi ricevettero il rifornimento da parte delle cisterne petroliere Arcola e Taigete, che compirono 5 viaggi attraverso l'Atlantico per caricare il combustibile necessario, prima di ritornare nuovamente nel loro porto di internamento.

Nei porti di Berbera e di Massaua ogni nave accolse a bordo circa 2000 rimpatriandi, molti dei quali vi erano giunti sfiniti dalle sofferenze e dalle privazioni dei campi e dalle fatiche del viaggio per arrivare al porto, compiuto a tappe forzate, stipati su camion e treni insieme a tutti i loro averi.
Mano a mano che giungevano a bordo le famiglie venivano registrate compilando un lungo questionario e consegnavano in deposito il denaro che ancora possedevano o che trasportavano per conto di altri che non avevano potuto rimpatriare.

Durante i viaggi nacquero bambini, alcuni molto malati morirono, si celebrarono prime comunioni. Per intrattenere i più giovani furono predisposte attività ricreative e sportive quotidiane a sfondo propagandistico, come era d'uso in quegli anni. Venne anche stampata e distribuita una edizione ridotta di alcuni giornali nazionali, come il “Giornale d'Italia”, con gli articoli ricevuti via radio.

Fin dall'imbarco e per tutta la durata del viaggio di ritorno l'equipaggio, le crocerossine, i medici, i religiosi offrirono ogni attenzione, con una partecipazione umana che andò oltre il dovere professionale, come ben testimoniano i libri di memorie.

Di seguito alcune date, utili per ricondurre a ciascuno dei 3 viaggi la posta che verrà esaminata e per l'interpretazione della posta “paquebot”, cioè spedita da bordo delle navi, consegnandola in un ufficio postale nel porto del primo scalo. Nel prospetto le navi sono indicate in coppia, in base alla compagnia di navigazione di appartenenza, poiché, pur non viaggiando necessariamente in convoglio, quasi sempre porto di partenza e di destinazione, scali e rifornimento furono uguali per le due navi. (1)

Il Saturnia esce dal porto di Trieste in partenza per la I missione

 

1° viaggio

Rimpatriarono i civili provenienti dai campi in Etiopia, i più urgenti da sgombrare. Al loro arrivo in Italia, furono accolti come eroi e nei vari porti di sbarco andarono loro incontro i sovrani o le altezze reali.

2° viaggio

Tra i civili imbarcati vi furono anche quelli del campo di raccolta di Decamerè in Eritrea e le donne e i bambini del campo di Nyeri in Kenia.

Lo sbarco a Brindisi nel gennaio 1943 di un gruppo di rimpatriati Un gruppo di rimpatriati su uno dei treni predisposti per il loro trasporto a destinazione

 

3° viaggio

Nel corso del viaggio ai profughi giunse la notizia dello sbarco degli Alleati in Sicilia e della caduta di Mussolini, che lasciò sgomente persone lontane dall’Italia da molti anni, prive di una percezione aggiornata dell’evolversi della situazione militare e politica. La scorta inglese li accompagnò fino nel canale di Sicilia e aerei e naviglio alleato li scortarono finché non fu certo che si sarebbero diretti a Taranto, unico porto concesso per lo sbarco. Nessuna fanfara li attendeva, solo le crocerossine distribuirono caramelle ai bambini e offrirono un po' d'accoglienza. Mentre erano sui treni per raggiungere le loro destinazioni, tra il 13 e il 17 agosto, Roma, Napoli, Torino, Milano e altre città furono investite da ondate di bombardamenti degli Alleati: era il benvenuto in un Paese con la guerra in casa, il primo assaggio dei momenti duri che sarebbero seguiti. L'Italia era già spezzata in due e alcuni dei ragazzi che rimpatriarono fecero in tempo ad essere travolti dalla guerra civile che scoppiò alcuni mesi dopo.

A conclusione delle 3 missioni, i civili rimpatriati dall'Africa Orientale furono circa 28.000: solo in Eritrea vi fu una qualche volontà e possibilità di restare e continuare le attività intraprese, l'Etiopia dovette essere lasciata da tutti e in Somalia la presenza italiana si ridusse a meno di due migliaia di persone. Coloro che rimasero, soprattutto se con familiari residenti nel Nord Italia, furono di fatto abbandonati per quasi 2 anni, con le sole possibilità di comunicazione affidate ai messaggi della croce rossa, a cui si aggiunsero quelli vaticani, per iniziativa del vicariato apostolico di Asmara.

 

NOTE:

(1) - L'Italia in Africa - Serie storico–militare - volume secondo - “L'opera della Marina 1868 – 1943” di G. Fioravanzo e G. Viti - ed. Istituto Poligrafico dello Stato Roma – 1959.

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