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la guerra di CORSA nel Mediterraneo

di Giuseppe MARCHESE



Gli schiavi al remo o in casa


Le prede catturate diventavano schiavi. Chi era fortunato andava a vivere in casa di padroni ed aveva vitto ed alloggio. I meno fortunati finivano sulle galere incatenati al remo.

Questa prassi era seguita sia in Oriente sia in Occidente. In Sicilia la nobiltà e i possidenti facevano sfoggio dei loro schiavi, sia bianchi sia neri. Sulle galere la vita era dura e gli schiavi non duravano molto. Vivevano incatenati notte e giorno, il cibo era scarso e pessimo. Le fatiche bestiali.

Narra il Di Biasi che nell'agosto 1755 durante l'avvicendamento di un reggimento di soldati nel porto di Trapani, approfittando della poca sorveglianza, vi fu una sollevazione di mori schiavi nelle galee S. Antonio e S. Gennaro dove i militari si dovevano imbarcare. Gli ex schiavi si liberarono e presero il largo dopo aver trucidato i loro carcerieri e i militi di sorveglianza. (20)

E' probabile che i corsari barbareschi costretti al remo siano stati quelli predati dalle Regie Galee, mentre quelli immessi "al libero mercato" e venduti "a miglior offerente" erano quelli catturati da privati dedichi alla guerra di corsa. Un detto siciliano afferma esattamente ciò quando si sentenziava "cu acchiappa un turco è sò (chi prende un turco se lo tiene).

Di siciliani impiegati nelle galee si ha notizia dalle lettere che questi mandavano a casa.(21) Anche in diversi altri casi vi sono richiami di imbarco sulle galeotte che facevano la guerra di corsa. Gli schiavi speravano in una cattura della nave e di essere liberati dalla costrizione.

Abbrancati a maniglie di ferro fissati al remo, gli schiavi, ma anche i galeotti, dovevano piegarsi in avanti verso la prora, con le braccia tese per passare sul dorso dei rematori del banco di fronte, che si piegavano allo stesso modo, e poi gettare il loro corpo all'indietro.

La ciurma dormiva al remo la notte e il giorno. Nel tempo del riposo, quando la nave era ancorata per lavori e nella stagione invernale, erano incatenati a due a due. (22)

Sulle grosse navi i rematori erano da 150 in su composti da schiavi, galeotti, e "buonavoglia", una sorta di disperati che per bisogno si imbarcavano volontariamente sulle galere.

A proposito di motti ve ne sono parecchi nella lingua siciliana eredi di quel periodo storico. Come "sintirisi pigghiatu di li turchi" per dire sentirsi frastornato e smarrito; oppure "iri pi fuiri e truvari li turchi" scappare e trovare il male peggiore; e ancora "comu lu turcu alla predica" che sta per non intendere ragione. E infine il più noto "mamma li turchi" un'invocazione di aiuto nel pericolo più grande.

Le lettere degli schiavi siciliani in (G. Bonaffini, la Sicilia e i Barbareschi) mostrano naturalmente un'ansia di ritornare in famiglia. Sono tutti di povera gente, contadini, pecorai, pescatori,etc.

La loro cattura è l'opera di razzia dei corsari i quali speravano in un riscatto, ma che erano venduti ed avevano un prezzo, specie se giovani.


Lettera della moglie di uno schiavo dei barbareschi diretta "alla redenzione dè cattivi" l'organizzazione che con mezzi pubblici e privati curava il riscatto degli schiavi. Questo avveniva poche volte e in mezzo a innumerevoli difficoltà.

1809 Campobello di Mazara
Se sono ardita S.S. acceda la bontà di scusarmi perché anelante della venuta del mio sposo in potere dei barbari Giuseppe Indilicato di Antonino che da me fu sborsato il denaro in persona della S sua Ill.ma che a sopra di un anno e non avendo persone a cui domandare cosa si abbia fatto forzata sono con le lacrime agli occhi incomodare la carità della paternità sua si benignasse acciò cosa si dice di buono di detto mio sposo acciò in parte potesse raffrenare le lacrime degli occhi tanto spero della carità della V. S. Ill.ma e con grandissima venerazione attendo suoi caratteri e piena di vera umiltà le bacio le sante mani mentre mi da l'onore di S.S.
Campobello li 29 8bre 1809.
Sua vero Serva
Leonarda Indilicato.
Lettera da Campobello di Mazara a Palermo diretta a Girolamo Castelli della Redenzione dè cattivi

S'immagina che nella civiltà del tempo era, per le ricche famiglie tripoline e algerine, motivo di orgoglio e distinzione sociale avere uno o più schiavi così come lo erano per le ricche o agiate famiglie siciliane.

Il loro riscatto non era facile. Vi era in Sicilia una arciconfraternita della redenzione dè cattivi (da cattivati, catturati) che poteva fare da intermediario per il riscatto degli schiavi senza l'intermediazione di altre persone che potevano avere fini di lucro o di grassazione.

Alcuni familiari si rivolgevano a questa organizzazione per iscrivere i loro congiunti tra i " cattivi" da riscattare, dando nome e cognome e dove si trovava il congiunto. Ma era come prendere un terno al lotto. Le prede e gli schiavi dovevano rassegnarsi al loro destino, se ne avevano il tempo, perché molti, non avevano nemmeno il tempo di vivere questa terribile esperienza.

Altri scrivevano alla famiglia chiedendo il loro aiuto.

E fin qui abbiamo parlato di due possibilità di rimpatriare dalla schiavitù: il riscatto e lo scambio.

Ma vi erano altre possibili vie di fuga: la conversione all'Islam e la fuga.

Sulla prima vi sono tracce di conversione alla religione maomettana di persone che poi raggiunsero anche una posizione elevata, come corsari.

La fantasia degli storici corre subito a schiavi che si convertirono alla religione maomettana, divennero liberi e poi pirati, e "rinnegati" commettendo inaudite atrocità.

Questa visione è parziale e maschera il settarismo religioso. Viene tracciata un'equazione per cui al rinnego della fede religiosa corrisponde una perversione che può macchiarsi di crimini non accettabili dalla società.

In definitiva lo schiavo che abbracciava la religione maomettana riacquistava la libertà, o quanto meno rendeva meno cruda la sua esistenza, e nei limiti di vivere in una terra straniera, condurre un'esistenza normale. Pare alquanto strana questa affermazione, ma è talmente ovvia....

Per la seconda, la fuga, non vi sono tracce tranne una lettera da Palermo in cui si dice "visto quello che scrivete a 24 (Agosto 1644) d'essere capitato in questa marina (Licata) un battello con sei persone cinque inglesi e uno gallego (gallico, francese) che dicon essere fuggiti da Tunisi e che per dubbio di contagio...."

Non è certo che costoro fossero schiavi, ma il fatto di essere fuggiti con un battello da Tunisi........(23)

Scrive Giuseppe Bonomo "Sulla base di cifre riportate da fonti attendibili è stato valutato che nella capitale (Algeri) e nel territorio circostante "Vi siano stati da 20-25 mila a 40-45 mila schiavi nel secolo XVI fino ai primi decenni del seicento. Da allora il numero decrebbe.... Al secondo posto si colloca la reggenza di Tunisi, dove gli schiavi furono circa 10 mila negli ultimi anni del cinquecento e 6-7 mila nella prima metà del Seicento; Tripoli fu sempre la più modesta delle reggenze barbaresche e perciò con il minor numero di schiavi: un mezzo migliaio nel secolo XVI, poco più di 1.500 nel 1671, alcune centinaia nel secolo successivo". (24)

La condizione di uno schiavo acquistato da un padrone.

Chi aveva pochi schiavi o poteva alloggiarli li sistemava a casa. In caso contrario erano sistemati in luoghi di detenzione, detti bagni.

"I bagni pubblici erano casermoni con finestre piccole e alte, con un unico grande portone che dava accesso a un grande cortile interno, lungo il cui perimetro si aprivano gli ingressi degli ambienti destinati al riposo. Gli schiavi si sdraiavano su stoie di giunco (in alcuni bagni c'erano tavolati gli uni sopra gli altri, specie di letti a castello). Unici oggetti d'uso: qualche brocca o vaso per l'acqua e cibi." (25)


Le lettere dalla schiavitù

Lettere spedite da schiavi dei barbareschi sono difficili da trovare. L'analfabetismo, la mancanza di collegamenti postali regolari e la difficoltà di inoltrare la posta. Inoltre difficoltà intrinseche alla loro condizione di schiavi, ne limitarono fortemente la diffusione.

In generale queste lettere sono una invocazione di aiuto per la liberazione dalla schiavitù. Danno dei consigli ai familiari di rivolgersi alle "elemosine", a qualche persona che commercia con la Barbaria e, infine, di trovare qualche schiavo moro in Sicilia da scambiare con lui.

Non era un'impresa facile trovare uno schiavo turco da scambiare con il proprio familiare. Lo scambio doveva avvenire alla pari e trovare "la merce" adatta allo scambio pare fuor di logica. D'altra parte l'acquisto degli schiavi in Sicilia era diretto alla propria elevazione sociale e non per lucro. Se a ciò si aggiunge che vi erano molte persone che speculavano su questo traffico e rendevano altamente aleatorio lo scambio, si ha un'idea delle difficoltà dello scambio sciavo contro schiavo.

In questa viene presentata una lettera scritta da uno schiavo in Algeri l'1 settembre 1808 e diretta a Palermo. La lettera fu trasportata con fortunosi mezzi da Algeri a Palermo. Arrivata venne immessa in posta con l'annotazione sulla soprascritta "lettera di un povero schiavo in Argeri sia data p. carità". La carità richiesta era forse la richiesta di inoltro a destino da Algeri a Palermo, ma a Palermo venne accolta alla lettera, adattando al momento la normativa di mandare franche le lettere dei mendicanti. Assimilando gli schiavi ai mendicanti, gli onesti impiegati postali riuscirono a mandare a casa senza pagare tassa la lettera.

Per l'importanza si trascrive il testo: "Argeri 1 settembri 1808 / Mia amatissima sposa / replico di darvi notizia del mio misero stato che non tralascio di descrivervi di continuo per la mia desiderata libertà di non abbandonare la vostra diligenza (maggiori) impigni (impegni) per il leomi (scambio) che si deve fare in cotesta di Argeri per li turchi che presi sono in Palermo perciò come (…….) che li trapanisi anno ottenuto la grazia di essere serviti di primo numero così li (……) impigni lo stesso a noi vi prego mia amata sposa di fare lo stesso per via delli nostri Sig.ri Grandi della nostra cita (città) di ottenere grazia in Palermo di essere servito in questo scambio perché ora si dimostra lamore della sposa verso lo sposo di tirarlo di questo (gran) vivo fuoco per li suoi (…..) impigni e che gran pena saria (sarebbe) questa mia se multi (molti) della nostra nazione si portano in libbertà precisamente delli nostri paesani e io restino (resto) in questo (……) fuoco sommerso in mezzo di tanti guai di stare soggetto di perdere l'anima e Iddio perciò non mancate di fare li vostri indagini di mettere (……) impigni (impegno) quanto più potete di liberare questanima di questo precipizio di inferno (affrontive) delli gran guai che soffrino li schiavi siciliani quelli che sono acconto del Bei che sono per il numero di cento e cinquanta guai (…..) più peggo (peggio) che si donano all'inferno dello accà (qui) capitato lettere delli mori che sono prigionieri in Palermo ma lettere malamente fatti in questo sentire gli eredi delli detti turchi sianno portato nel Bei con li propri lettere piangendo e spasimando il Bei si (….) contro li poveri schiavi siciliani e li o fatto mettere in catina in due ma catini che non si donano nelli nostri paesi con farci delli tanti disprezzi e bastonate con (gastimare) lo (sida) Iddio e Santi e sputari in facci per il più del nostro sagro (sacro) e santo battesimo e il Bei disse se non capitano lettere del suo re che sa di buono alli mi massali (vassalli) io non vi libero di questo casino e se sono vin contrato così malamente vi farò provare li più acerbi guai che sono nell'universo mondo perciò ci facete assentire al nostro Sig. Governo che ni dasse conto alla Sua Maestà che ci facissi dare conto a questi turchi di buono per dare un poco di leggirizza alli guai delli nostri poveri schiavi siciliani senza più (tagliari) vi saluto caramente con stringervi al mio petto con dare la santa benedizione alla mia sfortunata figlia e mi resta addio e non fari il contrario di quello che io vi scrivio (scrivo) ancora con diligenza.

Il vostro sfortunato sposo
Che vi ama di cuore
Luigi Roggigliani.

Da questa lettera, oltre le constatazioni sullo stato della schiavitù si danno due importanti notizie.

La prima è che il Bey di Algeri, venuto a conoscenza delle condizioni degli schiavi mori soggetti al remo in Palermo abbia, come suol dirsi, reso pane per focaccia, incatenando a due a due i suoi centocinquanta schiavi e acuendo i maltrattamenti di normale dotazione.

La seconda è l'accenno agli schiavi "trapanisi" (trapanesi) che sarebbero stati messi in cima alla lista degli schiavi da riscattare.

Lo strano è che già un'accusa di questo genere era stata fatta nel 1603, cioè due secoli prima da un altro schiavo, tale Giovan Battista Ballatore, il quale accusava gli intermediari della redenzione di traffici strani, cioè di aver incassato dalla moglie parte del riscatto, senza poi aver provveduto alla sua libertà. Accusava i negoziatori della redenzione di essere al soldo di potenti personaggi di Trapani privilegiando la liberazione degli schiavi "trapanisi" sugli altri.

Tralasciamo per ora questa vicenda e vediamo cosa dice d'altro il nostro schiavo Luigi Roggigliani. Innanzi tutto di interessarsi che si dia da fare affinché si sappia che alla crudeltà delle condizioni di vita degli schiavi mori in Palermo, corrisponde un analogo trattamento degli schiavi siciliani, almeno per quei centocinquanta posseduti dal Bey di Algeri, e che questo doveva essere portato a conoscenza del re affinché ne desse assicurazione al Bey.

Infine è da rilevare che Luigi Roggigliani non accenna mai a possibilità di riscatto. Egli certamente sa delle condizioni economiche della famiglia e che questa via gli è preclusa.

Non accenna neppure alla "limosina" della redenzione per la sua liberazione. Probabilmente egli sa quanto difficili siano le trattative per riscattare gli schiavi in Algeri e in altre località del nord africa e neanche da questa via spera di ottenere la libertà.

Probabilmente Roggigliani non lo sa, ma la Redenzione concluse nell'anno 1807 la sua opera di riscatto degli schiavi siciliani.

L'unico spiraglio, o speranza, è che si possa fare uno scambio tra schiavi mori in Palermo e schiavi siciliani in Algeri. In questo caso potrebbe ricercarsi la soluzione; ma gli schiavi sono tanti e non è facile trovare un ipotetico posto nella lista egemonizzata dai "trapanisi". Quindi chiede alla moglie che chieda aiuto ai "Sig. Grandi della nostra città" per trovare posto.

Il costo per il riscatto di uno schiavo variava secondo le epoche. Fino al 1710 erano in uso, come mezzo di pagamento del riscatto, le doppie di Spagna "da pezzi otto".

Nel 1647 il riscatto di undici schiavi costò 2.707 "pezzi d'oro d'otto reali", escluse le spese accessorie. Lo scudo era conteggiato "una pecza et un quarto meno un aspro". (26)

Nel 1632 la spesa per uno schiavo riscattato variava da 24.13 a 1.139.13 ( in moneta spagnola erano uguali a ) mentre nella seconda metà del 1700 il costo di uno schiavo variava da 30 a 175 scudi d'oro. Oltre a questi costi vi erano le regalie che andavano pagate al Bey, ai giannizzeri, alla Dogana, e a tanti altri personaggi che avevano una pur minima ingerenza nelle trattative.

Per di più alle volte gli schiavi venivano imposti ai negoziatori per il solo fatto che un personaggio potente voleva monetizzare.

Per questi motivi, ed altri ancora, le missioni di riscatto nel sempre andavano a buon fine e alle volte il capo dei negoziatori restava ostaggio, o schiavo, in Biserta o Algeri, perché debitore di somme e non veniva rilasciato se non prima che arrivasse dalla Sicilia la somma che egli doveva.

La situazione era così difficile e gli schiavi liberati così pochi che era normale costume che i familiari piangessero come morti i loro cari catturati dai pirati barbareschi.

Ritorniamo sul ruolo dei trapanesi nel riscatto e nella guerra di corsa. Su questa attività (la guerra di corsa) sembrano sicuri vari autori, tra cui il Trasselli. Che dice: "la tassa di concessione delle licenze di pirateria era uno dei principali cespiti dei viceammiragli, e che Antonio e Lanzone Fardella, fondatori della grandezza di questa famiglia, più tardi assurta ai primi gradi nobiliari del Regno di Sicilia, raccolsero non piccoli proventi proprio dalla pirateria". (27)

Ma tutto ciò era generalizzato. Vi era in Sicilia, e in tutto il Mediterraneo, una attività diffusa che aveva nel commercio delle prede e negli schiavi una importante fonte di guadagno. D'altra parte la diffusa attività di pirateria veniva guardata da parte della società come lecita.

Nel manifesto del 20.4.1690 che elenca le persone liberate dalla deputazione dè cattivi dall'inizio della creazione alla data del bando. Su 130 ex schiavi liberati le città di provenienza sono: Palermo e provincia 43; Trapani e provincia 28; Messina e provincia 24; Siracusa 3, Agrigento 4, Catania 5, altri 23.

Per coloro che non sapevano scrivere, subentravano compagni di sventura in grado di farlo, anche se con molta approssimazione.


Il numero degli schiavi

Dal 1596 al 1606 il numero degli schiavi in mano ai barbareschi è di 634 di cui 14 donne. 118 provenivano dal territorio di Palermo, 87 da Trapani, 44 da Cefalù, 42 da Catania, 26 da Taormina. Gli altri da altre località.

Erano localizzati in: a Tunisi 186, a Biserta 104, ad Algeri 98, a Costantinopoli 41 e gli altri in varie località dell'impero ottomano.

Dal 1640 in poi le incursioni colpiscono il litorale del trapanese (Trapani, Marsala, S. Vito Lo Capo) e poi gli insediamenti verso Sciacca, Girgenti, Licata. (28)

Nel 1804 la Deputazione della Redenzione di Palermo diede alle stampe un elenco degli schiavi ancora in cattività in Nord Africa, specificando che erano ancora in schiavitù: 677 a Tunisi; 23 ad Algeri, 14 a Tripoli. (29)
Il numero non è rispondente alla realtà. Si tratta di schiavi di cui la Redenzione ha ricevuto la fede di schiavitù (notizia della schiavitù).

Secondo alcuni autori tra il 1807 e il 1811 erano ancora tenuti schiavi nella reggenza di Algeri, 241 siciliani.


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20 - Evangelista Di Biasi, Storia cronologica dei viceré di Sicilia, Palermo 1840.
21 - Una lettera da Biserta del 9.8.1599 di Virgilio Crispo dice, tra l'altro: "sepolto vivo al martirio di questo temporale inferno di Barbaria, notte e dì al remo, alla catena, al travaglio et sotto il bastone" in Giuseppe Bonomo in Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Flaccovio editore, Palermo 1996.
22 - Rocco Gannì, l'ultima inedita fatica di Gaspare Serpotta, in La Fardelliana anno XVIII, 1999.
23 - Lettera da Palermo del 7 aprile 1644 a firma del viceré Alfonso Henriquez de Caprera Conte di Modica che ordina la quarantena per i sei fuggitivi.
24 - Giuseppe Bonomo in Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Flaccovio editore, Palermo 1996; S. Bono Corsari nel Mediterraneo. Cristiani e musulmani fra guerra, schiavitù e commercio, Milano 1993, Mondadori.
25 - Giuseppe Bonomo in Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Flaccovio editore, Palermo 1996.
26 - Giuseppe Bonaffini, Sicilia e Tunisia nel secolo XVII, Ila Palma, Palermo 1984.
27 - Riportato da Giuseppe Bonomo in Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Flaccovio editore, Palermo 1996.
28 - Giuseppe Bonomo in Schiavi siciliani e pirati barbareschi, Flaccovio editore, Palermo 1996.
29 - Giuseppe Bonaffini, Missioni siciliane in Algeri, ILA Palma, Palermo 1987.

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