IL POSTALISTA

8 marzo 2022

La forza delle Donne è IMMORTALITÀ

Giovanna

Nadia Anjuman

Maria Grazia Calandrone 

Matris animo curant, quando la cura è donna

Maria Grazia Dosio

Bianche dame nella Grande Guerra: le infermiere volontarie 

Enrico Bettazzi

La nostra emissione 2022 è dedicata a... ILARIA CAPUA

Studio Grafico ERRE GI 

8 marzo: è vera festa per la donna?

Sergio De Benedictis

Anna Maria Enriques Agnoletti: LA SCELTA

Lorenzo Oliveri

Indice di tutti gli articoli pubblicati 2019-22

 

 
Maria Grazia Calandrone
Nadia Anjuman


Siamo a Herat, Afghanistan, il 27 dicembre 1980. Nel 1995, quando Nadia ha quindici anni e ancora non sa di aver già vissuto più di metà della sua vita, Herat viene presa dai talebani, che limitano la libertà dei cittadini con la morte e chiudono alle donne l’accesso alle scuole statali. Ma Nadia, che «da quando ha memoria di sé sa di aver amato la poesia», non può, non sa e non vuole rinunciare. Anzi, comincia a scrivere proprio a partire dalla presa di potere talebana, perché la poesia spesso è un ponte lanciato su distanze altrimenti non colmabili.

E così, Nadia e altre studentesse si riuniscono nella Golden Needle Sewing School, un circolo di cucito dove, di nascosto, vengono offerte lezioni di professori universitari oppositori del regime. Tra loro, Muhammad Ali Rahyab, che insegna alle giovani la meravigliosa letteratura mondiale e, insieme alla grande poesia persiana di Hafez, porta in classe quella contemporanea, come il lavoro dell’iraniana Forough Farrokhzad.

Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’amministrazione Bush invade l’Afghanistan, dichiarando di voler distruggere i fondamentalisti di al-Qaida. La Storia passa sopra la testa di Nadia che, dopo il rovesciamento del regime talebano, si laurea in Letteratura ad Harat e pubblica il suo primo libro di poesia in lingua farsi, Gul-e-dodi (Fiore rosso scuro), prova acerba ma originalissima, nella quale racconta il contrasto fra la gabbia imposta dalla legge e il desiderio grande di libertà e conoscenza.

Come chiunque inizi, Nadia parla di sé e del proprio sentire, dentro una società che lo devasta. La sua è una poesia di avanguardia, per contenuto e stile. I temi fondativi della poesia afghana sono infatti tradizionalmente tre: il primo è la celebrazione della donna, dalle lucide trecce e dai profondi occhi neri, un secondo suona un canto simile all’aperto del paesaggio circostante, l’ultima è poesia mistica, che canta l’adorazione del creatore di tutte le cose e cerca la verità delle verità. Come inscrivere in uno di questi tre cerchi la poesia di una studentessa, cosciente di essere nata in una terra col più alto numero mondiale di suicidi femminili, in una terra dove le donne diventano torce di petrolio, pur di non sottostare a matrimoni forzati? La voce di Nadia è la voce di ognuna di queste donne che hanno determinato di bruciarsi vive per non morire per mano d’uomo. I critici letterari del paese notano immediatamente la modernità del linguaggio di Anjuman e la vitalità eversiva del contenuto dei suoi testi, il commovente, appassionato canto della vita minacciata, violentata e soffocata.

Mentre scrive il libro e studia all’università, Nadia conosce il ricercatore Farid Ahmad Majid Neia, i due giovani s’innamorano e si sposano. Ma il 4 novembre 2005, a venticinque anni, madre di una bambina di sei mesi, Nadia viene finita a mani nude dal marito, forse con la complicità della madre di lui, per aver osato leggere in pubblico le proprie poesie rivoluzionarie. Nadia ha disonorato la famiglia coi suoi ghazal, in un Paese dove la nuova Costituzione formalmente sancisce la parità tra uomo e donna e il Parlamento prevede una quota rosa. Eppure ogni anno ci sono almeno 5 mila femminicidi per «onore», concetto prima legato a questioni così dette amorose e che oggi diventa anche faccenda di immagine pubblica.
Dopo un breve periodo di detenzione, l’omicida viene assolto e riabilitato. Per la legge afghana, Nadia si è suicidata col veleno. Una perfetta, amarissima metafora: la ragazza ha continuato ostinatamente a scrivere, in un paese nel quale scrivere equivale a morire. Possiamo dire che il veleno dell’odio e del pregiudizio altrui l’abbiano suicidata.


Traduzione dal farsi all’inglese di Mahnaz Badihian, traduzione dall’inglese in italiano di Cristina Contilli (Elegia per Nadia Anjuman, Cristina Contilli e Ines Scarparolo, Carta e Penna Editore, Torino 2006).

Nacqui a Harat negli anni più agghiaccianti della rivoluzione; portai a termine con due anni di anticipo i miei studi nella scuola superiore “Mahbubeh haravi”. Attualmente frequento il secondo anno.
Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia.
L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che, appoggiandomi alla penna e zoppicando, facessi alcuni passi ed entrassi nel territorio della poesia.
Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma… ahimè… tuttora, ogni volta che faccio un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e, con essa, trema anche la mia anima. Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolare lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me e i miei passi non sono ancora abbastanza fermi.

Magari

A voi, ragazze isolate del secolo
condottiere silenziose, sconosciute alla gente
voi, sulle cui labbra è morto il sorriso,
voi che siete senza voce in un angolo sperduto, piegate in due,
cariche di ricordi, nascosti nel mucchio dei rimpianti
se tra i ricordi vedete il sorriso
ditelo:
Non avete più voglia di aprire le labbra,
ma magari tra le nostre lacrime e urla
ogni tanto facevate apparire
la parola meno limpida.

Il diritto di gridare

Non ho voglia di aprire la bocca
Per cantare cosa, poi…?
Io, disprezzata dalla vita stessa.
Cantare e non cantare? Non c’è differenza.
Perché dovrei parlare di dolcezza
Quando provo solo amarezza?
Oh, il diletto dei tiranni
Ha colpito la mia bocca
Se non ho un compagno nella mia vita
A chi dovrei dare il mio affetto?
Non c’è differenza fra parlare, ridere,
Morire, esistere.
Io e la mia solitudine forzata.
Insieme al dispiacere e alla tristezza.
Sono nata per il nulla.
Le mie labbra dovrebbero essere sigillate.
Oh, cuore mio, lo senti che è primavera
Ed è tempo di festa.
Cosa posso fare con un’ala intrappolata
Che mi impedisce di volare?
Sono stata zitta per troppo tempo,
Ma non ho dimenticato la melodia,
Perché continuo a bisbigliare
Le canzoni nel mio cuore profondo,
Per ricordare a me stessa
Che un giorno distruggerò questa gabbia,
E volerò via dalla solitudine
E canterò, con la mia malinconia.
Io non sono come un debole pioppo
Che si piega al vento.
Io sono una donna afghana,
E questo è il mio lamento.

Verdi passi della pioggia

Verdi passi della pioggia
lungo il cammino, qui
vita assetata, come un lungo deserto di sale e polvere
il loro respiro, riflesso dell’acqua, bruciante
gole secche e polverose
lungo il cammino, qui
fanciulle, avvezze al dolore, corpi scoiati
i volti defraudati della gioia
cuori vecchi e spaccati
nessun sorriso sulle labbra
nessuna lacrima dal fiume prosciugato dei loro occhi
dio!!
non so, raggiungerà il loro grido senza suono le nuvole
fino all’universo?
sono i verdi passi della pioggia

La più pallida

Non tormentarmi, la serratura del mio cuore è chiusa
La statua del tuo desiderio non si trova
Lo scrigno della tua gentilezza è grande, è grande
Non riesce a farsi strada nel mio corpicino
La via che ci sta davanti è formata da due linee parallele
Significa che la storia di me e te non diventerà di noi due
Non descrivere i miei tratti, non mi inganno
La farfalla dalle ali bruciate non diventa bella
E’ inutile, non darmi speranza
Un cipresso che si è trasformato in ceppo non si innalza
Forse sei diventato il Messia, non colpire
Il dolore che va dritto al cuore, non è duraturo
La parola più pallida della raccolta è la mia vita
Nell’illeggibile scrittura curva e sottile
Lascia che non sia letta e muoia sconosciuta
Questa parola maledetta e senza senso.

Catene d’acciaio

Quante volte è stata tolta dalle labbra
la mia canzone e quante volte è stato
zittito il sussurro del mio spirito poetico!
Il significato della gioia è stato
sepolto dalla febbre della tristezza. Se con i miei versi tu notassi una luce:
questa sarebbe il frutto delle mie profonde immaginazioni.

Le mie lacrime non sono servite a niente
e non mi rimane altro che la speranza. Nonostante io sia figlia della città della poesia,
i miei versi furono mediocri.
La mia opera è come una pianta priva di cure,
da cui non si può pretendere molto. Nell’archivio della storia,
questo è tutto ciò che mi rappresenta.

Maria Grazia Calandrone
www.mariagraziacalandrone.it
24-02-2022

Immagini in copertina:
da https://www.open.online/2021/09/21/afghanistan-protesta-donne/ - Foto: Anadolu Agency