digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

zhengyalov hats
Artsakh, novembre 2018, Yvert 138
 
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Per questo inizio del 2020 l'allegra Brigata di Cucina del Postalista si è spinta in una tormentata terra di passaggio, da sempre teatro di incontri (e spesso scontri) tra grandi civiltà che per un motivo o per l'altro nutrivano nei suoi confronti ambizioni di dominio; uno stato che, figuratevi, ufficialmente non esiste, anche se storicamente è uno dei primi regni attestati in questa parte di mondo.

Stiamo parlando dell’Artsakh, o come forse è più noto dalle nostre parti, del Nagorno-Karabakh, fino al 1992 oblast autonomo dell’URSS, reclamato dall’Azerbaijan all’indomani della disgregazione dell’Unione Sovietica, ma culturalmente più legato alla vicina Armenia, con la quale condivide anche la religione cristiana.

Ma la controversia tra azeri e armeni per il possesso dell’Artsakh era già cominciata all’inizio del ‘900, con la caduta dell’impero zarista. E prima ancora, nel corso dei secoli, la regione che già avanti Cristo era nota col nome di regno di Artsakh, stretta tra le rive orientali del mar Nero e la sponda occidentale del mar Caspio, era stata contesa tra assiri, babilonesi, macedoni, persiani e romani; e poi, a partire dai primi secoli dopo Cristo, dai bizantini, gli arabi, i mongoli, fino a diventare terra di frontiera tra l’impero ottomano e quello zarista.

L’ultimo decennio del millennio scorso ha visto il consolidarsi, tra guerre locali, scontri per bande e tentativi di pulizia etnica, di un auto-dichiarato “stato-che-non-esiste”, il quale però ha un suo nome, un suo governo de facto, una sua moneta e che, come tutti gli stati che si rispettano, stampa i suoi francobolli.

E ovviamente, tra i francobolli non poteva mancare quello dedicato ad un piatto che, dell’Artsakh, è uno dei simboli dell’identità nazionale. Un piatto povero, che non a caso è associato alla Grande Quaresima osservata dalle chiese cristiane d’Oriente e alle sue prescrizioni dietetiche: non c’è carne (né formaggio, né pesce) in questa gustosa focaccia ripiena che viene cucinata su una sorta di piastra convessa, chiamata saj, posta ad arroventarsi tra i carboni ardenti o direttamente sulla fiamma viva. E nella tradizione più stretta è sempre accompagnata dall’offerta di un bicchiere di vino, che in questa zona di religione cristiana è da sempre prodotto e consumato.

L’impasto di base è quello del lavash, un pane azzimo tipico della regione, simile al naan indiano ma anche alla nostra piadina, che da molti storici è considerato la forma più antica di panificazione giunta fino a noi, e nel 2014 è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio Mondiale dell’Umanità. A differenza del lavash però la pasta dello zhengyalov hats, questo il nome della nostra focaccia, è sottilissima: le cuoche più esperte arrivano facilmente a spessori inferiori al millimetro.

Ma la caratteristica principale, quella che distingue lo zhengyalov hats da tutte le preparazioni più o meno simili, è la sua farcitura: insalata di campo, radicchio, ortica, spinaci e cavoli finemente tritati e conditi con erbe aromatiche di vario genere, come germogli di aglio e di cipolla (a volte preventivamente fatti soffriggere), prezzemolo, cerfoglio, coriandolo, sedano, finocchietto selvatico in una sinfonia di sapori dove non manca la nota amara del tarassaco, quella acida del rabarbaro, quella piccante del sumak, e dove è possibile ritrovare, oltre a diversi tipi di frutta essiccata, anche una varietà locale dello scomparso silfio degli antichi romani. Sono più di 30 le varietà di erbe, ortaggi e spezie che possono far parte della farcitura di uno zhengyalov hats, il cui nome, tradotto, suona piò o meno come "pane con le erbe", e come sempre accade con preparazioni di questo tipo, ognuno conserva il segreto della sua propria miscela.

Quello che non cambia mai è il risultato finale: una focaccia sottilissima, aromatica e fragrante, da mangiare bella calda con l’accompagnamento di un buon bicchiere di vino, gustando l’ospitalità di un paese che ufficialmente non esiste nemmeno.

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