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![]() digressioni gastro - filateliche a cura della Brigata di Cucina del Postalista |
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tenpura | |||
Giappone, 24 novembre 2015, Yvert 7361 | |||
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Fritta, come usavano dire le nostre nonne, è buona anche una scarpa… e un bel fritto misto è in effetti una delle esperienze gustative più stimolanti che possano capitare. Friggere, si frigge praticamente in tutte le parti del mondo, con poche varianti da un luogo all’altro, ma una delle fritture più famose viene senz’altro dal Giappone, ed è la celeberrima tenpura. Anche se, a ben vedere, proprio dal Giappone la tenpura non viene, perché quello che molti ritengono essere uno dei simboli della secolare tradizione gastronomica del Sol Levante era in realtà sconosciuto in Giappone prima del XVI secolo: a quel tempo la frittura giapponese consisteva nell’immergere nell’olio bollente gli alimenti così come erano, senza pastella. A far conoscere la pastella ci pensarono i missionari gesuiti giunti in Estremo Oriente al seguito dei commercianti portoghesi che dalle Indie navigavano fino a queste coste nel periodo storico chiamato del cosiddetto “commercio nanban”, dove il termine nanban, mutuato dal cinese, significa alla lettera “barbaro che viene dal sud”, e indicava genericamente tutti coloro che giungevano in Giappone dall’India navigando lungo le coste meridionali del continente asiatico. Questi missionari, e anche molti dei commercianti che con loro viaggiavano, seguivano strettamente il precetto dell’astinenza non solo durante la Quaresima, ma anche nei quattro periodi, uno per ogni stagione dell’anno, che all’epoca (e anche oggi, benché non li rispetti praticamente più nessuno) venivano chiamate le quattro Tempora. In quei periodi avevano l’abitudine, astenendosi dalla carne, di nutrirsi di verdura e pesce che friggevano in una pastella (niente uova) di sola acqua e farina. E per i giapponesi il nome liturgico della celebrazione, della quale non comprendevano né le motivazioni, né le modalità, passò ad indicare questa maniera di cucinare. E ovviamente, siccome “fritta è buona anche una scarpa”, una volta scoperta la tenpura, continuarono a prepararla anche dopo che, con l’inizio del periodo Edo, l’impero del Sol Levante si isolò progressivamente dal mondo occidentale, al quale riaprì le porte solo verso la fine del XIX secolo. Fu allora che i primi viaggiatori occidentali scoprirono questa meraviglia culinaria chiamata tenpura, anche se ci sarebbero voluti ancora molti anni prima che a qualcuno venisse in mente di collegare quel fritto leggero e croccante, scenicamente disposto su piccoli piatti, ancora rigorosamente a base di verdure, pesci e crostacei intinti in una pastella di acqua ghiacciata e farina di riso, all’antico menù penitenziale dei gesuiti portoghesi. Una curiosità: la farina panko, che è in realtà una panatura a base di minuscoli fiocchi di pane e che molto spesso spesso viene indicata come “farina da tenpura”, non è in Giappone usata per la tenpura tradizionale. Ancora una volta c’è lo zampino dei portoghesi, perché panko è un classico esempio di wasei eigo: una parola coniata sulla base di un termine estero (pão, pronuncia pan, portoghese per pane) fuso con uno locale (ko, cioè farina, polvere, in giapponese), e il pane come lo intendiamo noi occidentali era, guarda caso, arrivato in Giappone con quegli stessi mercanti “barbari” del XVI secolo. Il panko tuttavia è usato per una frittura diversa, nata in quest’ultimo secolo, che prevede l’uso di uovo nella pastella, e che loro chiamano furai… altro wasei eigo coniato sull’inglese fry, friggere… e anche questa è molto buona. E il pane usato per ottenere il panko, una specie di pane a cassetta senza crosta, croccante e leggerissimo, è anche lui indicato con un wasei eigo: si chiama shokupan, perché anziché metterlo in forno lo cuociono facendo attraversare l'impasto da una carica elettrica; pane cotto con un colpo (shock) elettrico: un metodo di cottura nato nell’immediato dopoguerra per ovviare alla carenza di combustibile. Ma ora bando alle chiacchiere, e godiamoci la nostra tenpura. |
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