digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

ayaka
Curaçao, 11 novembre 2011, Yvert 238
 
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Come recita un detto dell'isola di Curaçao, "la mejor ayaka la hace mi abuela". Basta questa affermazione a farci capire che siamo di fronte a un piatto di origine popolare, e del quale esistono tante versioni quante sono le persone che lo preparano.

Anzi, nel caso della nostra ayaka, sarebbe forse più corretto dire, invece di "persone", nuclei familiari. Sì, perché su questa isoletta situata a meno di 100 chilometri dalla costa venezuelana e dipendenza diretta dei Paesi Bassi, la preparazione della tradizionale ayaka coinvolge, nei giorni di Natale, tutta la famiglia... ovviamente sotto la sapiente direzione della "abuela", la nonna.

E così c'è chi sminuzza stufa e insaporisce i componenti del ripieno e chi si incarica di preparare la pasta a base di farina di granturco destinata a contenerlo, chi sceglie pulisce e prepara le grosse foglie di plantano (una varietà di banano) e chi le usa poi per confezionare con precisione i "pacchetti". E chi infine di quei "pacchetti", accuratamente chiusi con cordicelle spesso ricavate da fibra vegetale, segue la lenta cottura al vapore.

Tra gli ingredienti del ripieno, che come l'allegra Brigata di Cucina del Postalista ha potuto verificare curiosando in varie cucine sono estremamente variabili da famiglia a famiglia, troviamo carne di vari tipi, uova sode, pomodori, cipolle, olive, capperi, peperoni dolci e piccanti, banane verdi, uvetta e mandorle... niente anacardi, che quelli si usano nella non lontana isola di Aruba, dove viceversa le mandorle sono rigorosamente escluse. E poi, naturalmente, spezie di ogni genere, delle quali particolarmente ricche sono queste isole... sì, perché questo piatto è diffuso, con pochissime varianti nel nome e nella preparazione, in molte isole caraibiche e anche nei paesi costieri.

Lo scrittore venezuelano Arturo Uslar Pietri, sostiene che la ayaka è l'espressione di una perfetta mescolanza culturale dove si ritrovano le olive e l'uvetta dei Greci e dei Romani, i capperi e le mandorle di Arabi e Turchi, la carne dei ricchi e potenti colonizzatori post-colombiani, e il mais e le foglie di plantano delle popolazioni pre-colombiane.

Archeologi ed etnologi però fanno notare che l'usanza di farcire un impasto di farina di mais con ingredienti vari e poi friggerlo, bollirlo o cuocerlo al forno era già viva in epoche pre-colombiane in tutta l'America Centrale, e in questo senso la ayaka sarebbe solo una variante locale dei tamales, già noti ai Maya e, da Caracas a Manhattan, piatto forte degli odierni fast-food ispano-americani.

Per altri ancora, più prosaicamente, si tratta di una preparazione inventata in periodi antecedenti l'abolizione della schiavitù (che a Curaçao gli olandesi concessero nel 1863) dagli schiavi indios e neri, che la preparavano utilizzando gli avanzi dei pranzi e cenoni natalizi dei loro padroni: di qui la tradizione di prepararla nel mese di dicembre e la variabilità degli ingredienti.

Comunque sia, dopo averla attentamente liberata dal suo involucro di foglie, quando la forchetta affonda nell'impasto di mais e raggiunge il cuore speziato della nostra ayaka gli aromi e i sapori che si sprigionano sono tali da far dimenticare tutte queste teorie per concentrarsi esclusivamente su quello che si sta assaporando.

E ogni volta è un'esperienza nuova ed unica, mentre la abuela, la nonna, aspetta sorridendo di sentirsi dire che una ayaka così buona la sa fare solo lei...

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