digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

kaq'ik
Guatemala, 4 marzo 2014, Michel 1594
 
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Filatelia Tematica



A parlare il q’eqchi’, attualmente la più diffusa delle lingue di ceppo maya che a stento sopravvivono nell’America centrale, sono rimaste oggi poco meno di 900mila persone che vivono prevalentemente in Guatemala e, in piccola parte, nel confinante Belize. E q’eqchi’ è anche il nome del popolo che si ostina a parlare questa lingua, un popolo che vanamente Bartolomé de las Casas, il vescovo spagnolo nominato da Ferdinando II “procurador o protector universal de todos los indios de las Indias", tentò di convertire al cristianesimo negli anni a cavallo del 1500.

Tra questi ultimi eredi di una civiltà che già ai tempi dei conquistadores spagnoli era in declino, l’allegra Brigata di Cucina del Postalista si è spinta in cerca di un piatto anch’esso precolombiano, il cui nome, nell’antico linguaggio che è ancora la lingua “ufficiale” di certe osterie del dipartimento di Verapaz, significa alla lettera “rosso peperoncino”.

Si tratta del kaq’ik, che fin dal suo ingrediente di base, il chompipe, rivela le sue antiche origini. E precolombiani sono anche tutti gli altri ingredienti di questo saporito (e piccantissimo) stufato che, da sempre considerato il piatto nazionale guatemalteco, è stato qualche anno fa dichiarato ufficialmente “patrimonio culturale immateriale del paese”.

Il nostro chompipe, che è poi quello che noi abbiamo ribattezzato tacchino, viene fatto a pezzi e messo a bollire con le foglie verdi di cipolla e aglio freschi, samat (una pianta autoctona chiamata anche coriandolo di montagna) e un bel ramo di hierbabuena, la menta selvatica centroamericana indiscussa regina, a Cuba, del mojito.

Mentre la carne cuoce si tostano i semi di zucca che, una volta ridotti in polvere insieme all’ajonjolì (variante locale del sesamo) e a grani di pepe, serviranno ad addensare la salsa di pomodoro nella quale avverrà l’ultima parte della cottura.

Abbiamo detto salsa di pomodoro, ma in realtà si tratta di un condimento dove a farla da padroni sono i peperoncini (dai neri pasas ai rossi guaques, in una varietà che trova limiti solo nella disponibilità stagionale e nella fantasia del cuoco), i peperoni dolci, la cipolla e il miltomate, che è il nome che da queste parti viene dato al tomatillo, il pomodorino “con le foglie” antesignano del pomodoro diffuso in tutto il mondo dagli spagnoli dopo la conquista.

Il quale pomodoro, beninteso, c’è anche nel nostro kaq’ik, ma serve più che altro a dare la giusta consistenza all’intingolo dove, nell’ultima mezz’ora, verranno posti a terminare la cottura i pezzi di tacchino. E a questo punto va aggiunta anche una buona dose di achiote in polvere o in pasta, una spezia locale dal sapore amarognolo e dal vivacissimo colore rosso.

Lo stufato viene servito accompagnato dal brodo di bollitura del tacchino e dagli immancabili tamales, focaccine di farina di mais avvolte in foglie di banano e cotte al vapore. Sulla tavola, insieme ai tamales, è sempre presente il temibile peperoncino cobanero in polvere, ma l’allegra Brigata ne sconsiglia l’uso a palati non avvezzi a certi livelli di piccantezza.

Oggi è abbastanza comune vedersi servire anche una scodella di riso bollito, ed è questo l’unico tra i tanti ingredienti che abbiamo fin qui nominato a non essere conosciuto dagli antichi progenitori degli odierni q’eqchi’.

Tutto il resto, dal piccante del “peperoncino” al “rosso” dell’achiote, già si accompagnava al tacchino negli ancestrali kaq’iq dei maya secoli prima dello sbarco di Cristoforo Colombo.

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