digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

mežerli
Slovenia, 26 novembre 2010, Yvert 723
 
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Del maiale, si sa, non si butta via niente. E se ci divertissimo a fare una ricerca filologica sui modi di dire di mezzo mondo, troveremmo probabilmente proverbi analoghi un po' dappertutto... magari con qualche variante nelle zone in cui la carne suina è bandita.

Ma disquisire sui precetti culinari e/o religiosi in uso nel mondo non è nelle intenzioni della Brigata di Cucina del Postalista, che si limita a girovagare qua e là in cerca di ghiottonerie e francobolli e, arrivata in Slovenia, ha scoperto che anche qui vige l'usanza di sfruttare al massimo le risorse derivanti dalla macellazione del maiale.

Si tratta di una ricetta di cucina povera, ma povera che più povera non si può, alla quale le poste slovene hanno dedicato appena due anni fa l'emissione che oggi vi presentiamo.

Catalogato da Yvert & Tellier col numero 723 e dentellato 13 ½ x 13 ¼, il nostro francobollo rappresenta una preparazione che un tempo, più o meno come la nostra polenta con le animelle, costituiva il piatto forte dei contadini della Koroška, la parte slovena della Carinzia, nel giorno in cui si "ammazzava il maiale".

Stiamo parlando del mežerli, che come tante analoghe ricette sfrutta le parti meno pregiate (e quindi meno commerciabili, ma non per questo meno gustose) della povera bestia. In questo caso si tratta del polmone che, fresco di macellazione, viene posto a bollire per un'ora per poi essere grossolanamente tritato e messo a stufare in un soffritto di cipolla, olio e spezie varie, tra cui maggiorana e cannella.

E siccome in Slovenia non si butta via proprio niente, anche l'acqua di cottura viene conservata, e utilizzata per ammorbidire pezzi di pane raffermo che, mescolati con panna acida e uova, finiscono con l'essere incorporati allo stufato di polmone.

L'impasto così ottenuto viene poi gratinato in forno fino a formare una bella crosticina dorata, e servito con l'accompagnamento di patate. Per buttare giù il tutto, niente di meglio di un generoso bicchiere di vino bianco secco o meglio ancora di mošt, la variante locale del sidro.

Un pasto rustico, economico e sostanzioso, che contribuiva a rifocillare adeguatamente quanti avevano lavorato a trasformare il povero suino in riserve proteiche destinate a durare tutto l'anno.

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