digressioni gastro - filateliche
a cura della
Brigata di Cucina del Postalista

lapis palaro
Indonesia, 6 luglio 2010, Michel 2836
 
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L'allegra Brigata di Cucina del Postalista torna a spingersi in Oriente, stavolta sulle rotte dei pirati che infestavano mari e arcipelaghi indonesiani. Da luoghi mitici come Mompracem, Labuan e Sarawak abbiamo continuato a navigare verso est, fino a raggiungere l'arcipelago delle Molucche, covo a loro volta di pirati non meno temibili dei "tigrotti" di Sandokan.

Situato a cavallo dell'equatore, tra Celebes e Nuova Guinea, a sud delle Filippine e a nord dell'Australia, Maluku (questo il suo nome in indonesiano) è un gruppo di un migliaio di isole di svariate dimensioni. La più grande è Ceram, conosciuta ai locali col nome di Nusa Ina (isola madre): misura 17.000 chilometri quadrati, mentre le più piccole sono poco più che scogli persi nell'oceano.

Alla loro ricerca, alla ricerca delle mitiche "isole delle spezie", partì Magellano nel 1519,  in un'impresa destinata a entrare nella storia come la prima circumnavigazione del globo. E da qui, nei secoli seguenti, continuarono ad arrivare in Occidente prodotti come il chiodo di garofano, lo zenzero, la noce moscata e svariati tipi di pepe.

Di queste spezie, i portoghesi prima e gli olandesi dopo cercarono di assicurarsi il monopolio, entrando presto in contrasto con le popolazioni locali, tradizionalmente navigatori e commercianti, che in un tentativo di resistere alla penetrazione coloniale si trasformarono poco a poco in contrabbandieri e, appunto, pirati.

Ovviamente, oltre che al commercio, le mille spezie delle Molucche erano (e sono) ampiamente destinate anche alla gastronomia locale, e classico esempio ne è la ghiottoneria che siamo andati a scovare in certe trattorie del porto di Ambon, storica "capitale" di queste isole: il lapis palaro.

Che in realtà altro non è che una delle tante declinazioni del "lesso rifatto", cioè della carne prima bollita e poi insaporita in padella, ma con una piccola particolarità: il lapis palaro non è una ricetta di riciclo, ma fin dall'inizio il manzo viene bollito all'unico scopo di essere finalmente "rifatto".

Per la preparazione del nostro piatto occorre un pezzo di carne di manzo da tagliare a fette spesse circa un centimetro. Le fette vengono messe a bollire in acqua aromatizzata con peperoni (la piccantezza è lasciata al gusto del cuoco), scalogno, aglio, zenzero (di solito il galangal, una varietà molto apprezzata localmente), noce moscata, coriandolo, cumino e chiodi di garofano.

Il tempo di cottura varia a seconda della qualità del taglio scelto, e quando la carne è finalmente bella tenera, le fette vengono tolte e poste ad asciugare, mentre il brodo di cottura viene addensato aggiungendo sagù, un amido estratto dal midollo delle palme che crescono selvatiche nelle isole dell'arcipelago.

Il risultato di questa operazione è una salsa densa e speziata, i cui aromi sono difficilmente immaginabili ad un palato occidentale, che viene usata per condire le fette di carne fritte in abbondante olio di palma, oggi demonizzato ma da secoli usato più o meno in tutta la fascia equatoriale del pianeta. Nella presentazione più abituale, la carne è portata in tavola adagiata su falde di peperoni, la cui piccantezza è ancora una volta lasciata alla discrezione del cuoco, fritte, arrostite, o anche semplicemente spellate a crudo.

Una certa prudenza è d'obbligo, perché certi lapis palaro sono talmente piccanti da far venire le lacrime agli occhi, ma il gioco vale la candela: armatevi di coraggio e provate... non resterete certo delusi.

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